domenica 31 maggio 2009

Draghi, radiografia di un paese malato


IL COMMENTO di EUGENIO SCALFARI 31 maggio 2009 epubblica.it: il quotidiano online con tutte le notizie in tempo reale

HA SCRITTO Alessandro Penati ("Repubblica" di venerdì scorso) che le "Considerazioni finali" lette dal governatore della Banca d'Italia il 29 maggio ad una vasta platea di banchieri, imprenditori e uomini politici sono un evento che non ha alcun riscontro nelle altre democrazie occidentali. Così pure le esternazioni del presidente della Confindustria all'assemblea degli industriali e i discorsi dei leaders sindacali il primo maggio. Queste frequenti sortite, secondo Penati, sono altrettante prediche inutili che nulla tolgono ma nulla aggiungono alla realtà economica e sociale del paese creando però un intreccio perverso che spinge ciascuno degli attori fuori dal proprio seminato con la conseguenza di confondere le competenze, alzare inutili polveroni ed infine paralizzare il sistema decisionale. C'è del vero nella tesi di Penati che però non si pone la domanda del perché questi vecchi riti (come egli li definisce) durino da cinquant'anni e non accennino a scomparire. Per quanto riguarda in particolare il governatore della Banca d'Italia, quei riti cominciarono nel 1947 con Luigi Einaudi e proseguirono con i suoi successori fino all'ultimo Draghi. Perché? Le ragioni a mio avviso sono due. La prima deriva dalla struttura corporativa del paese: una serie di piccoli poteri ma coriacei, che hanno segmentato il cosiddetto interesse generale in una serie di agguerriti interessi particolari blindati e non comunicanti tra loro, compartimenti-stagni all'interno dei quali la visione complessiva non penetra.
Guido Carli, in una delle sue "Considerazioni finali" le chiamò "arciconfraternite del potere" attribuendo alla loro presenza quel sistema di lacci e lacciuoli che paralizza o comunque rallenta la diffusione del benessere all'interno della società. In questo paesaggio di corporazioni la Banca d'Italia è una delle poche voci (forse la sola) al servizio dell'interesse generale perché non è condizionata da interessi propri né di categoria. La seconda ragione deriva dal fatto che l'Italia è sempre stata, fin dalla formazione dello Stato unitario, un paese povero di capitali di rischio. Il capitale l'hanno fornito le banche, anzi per un lungo periodo le banche straniere, prima francesi, poi tedesche. Ma la dotazione del capitale di rischio è sempre stata insufficiente. Di qui una compressione costante delle retribuzioni, una altrettanto costante evasione fiscale, una bassa produttività, una stentata crescita del reddito nazionale, un elevato livello del debito pubblico che è sempre stato tra i più alti d'Europa dai tempi di Marco Minghetti a quelli di Giulio Tremonti. La Banca d'Italia, nella veste di suprema magistratura economica che le condizioni storiche le hanno assegnato, si è dunque dovuta occupare della crescita del reddito e dell'occupazione essendo essa una delle premesse per mantenere la stabilità dei prezzi e del valore della moneta. Il professor Penati converrà con me che il vecchio rito delle "Considerazioni finali" ha dunque una sua ragion d'essere in un paese in cui non esiste una classe generale portatrice degli interessi generali. Fu questo il cruccio di Ugo La Malfa ed è stato il nostro cruccio per mezzo secolo, reso più intenso che mai in questi ultimi quindici anni di populismo e di demagogia "a gogò". La relazione di Mario Draghi apparentemente non ha scontentato nessuno. In realtà il governo l'ha accolta a denti stretti, i sindacati, la Confindustria e le opposizioni vi hanno invece visto la conferma delle loro posizioni. Il ministro dell'Economia si è chiuso in un superbo silenzio rivendicando al potere politico il diritto di gestire senza interferenze la politica economica. "Grazie, so sbagliare da solo": Tremonti non l'ha detto ma l'ha certamente pensato. Ridotto all'essenza il discorso di Draghi si può riassumere nei seguenti punti:
1. Forse la crisi mondiale ha toccato il fondo e forse cesserà di sprofondare ulteriormente, ma la risalita "a riveder le stelle" sarà lenta specie in Europa e specie in Italia.
2. Gli effetti negativi della crisi finanziaria non si sono ancora scaricati sull'economia reale. Per quanto riguarda in particolare l'occupazione questi effetti cominciano appena ora a vedersi e agiranno in misura crescente nell'ultimo quadrimestre del 2009 ripercuotendosi con effetti di trascinamento per tutto il 2010.
3. Gli strumenti di sostegno sociale fin qui adottati sono decisamente insufficienti. Le risorse mobilitate dal governo vanno nella giusta direzione di estendere la protezione a tutti i lavoratori in difficoltà, ma si limitano ad un livello troppo basso, troppo diseguale tra i diversi gruppi e categorie e non inclusivo dell'ondata di precari i cui contratti scadranno alla fine dell'anno coinvolgendo un milione e ottocentomila lavoratori. 4. Complessivamente il governo ha mobilitato lo 0,3 del Pil per sostenere i redditi dei lavoratori e delle famiglie; in cifre assolute 5 miliardi di euro.
5. Nonostante la modestia di queste cifre largamente inferiori a quanto fatto nel resto d'Europa, la finanza pubblica è in dissesto. Il deficit rispetto al Pil sta viaggiando al 4,5; a fine anno avrà superato il 5. Lo stock di debito pubblico sarà del 114 per cento rispetto al Pil e tenderà addirittura al 120 nel 2011. La spesa corrente è già aumentata di tre punti arrivando a livelli mai raggiunti prima. La pressione fiscale è al 43 per cento e continua a crescere. 6. La domanda dei consumatori è in discesa. L'investimento sia pubblico sia privato è sceso a livelli bassissimi. 7. Urgono interventi di sostegno immediati e consistenti. Per impedire che la sfiducia internazionale aumenti bisogna fin d'ora decidere con quali strumenti il governo rientrerà nei parametri di stabilità a partire dal 2011. Decidere, approvare, fissare la tempistica ora per allora affinché i mercati riacquistino certezza e speranza.
Fin qui Draghi. Tralascio altre cifre fornite dal governatore che i giornali di ieri hanno già ampiamente riportato.
La strategia di intervenire in modi e quantità appropriati per sostenere la domanda e il reddito dei lavoratori e dei pensionati impegnandosi fin d'ora nell'operazione di rientro, era già stata delineata dal ministro ombra per l'Economia del Partito democratico, Morando, fin dai tempi della segreteria Veltroni. Naturalmente non fu presa in considerazione dal governo. Tremonti disse che a Bruxelles ci avrebbero riso in faccia. Ma non ridono di fronte agli sforamenti della Germania, dell'Irlanda, della Spagna, della Gran Bretagna.
Quest'ultima in particolare viaggia tranquillamente oltre la soglia del 6 per cento. Secondo le previsioni si avvicinerà alla soglia del 10 entro l'anno. Infatti le agenzie internazionali di rating hanno declassato il debito pubblico inglese, fatto che non avveniva dal tempo della guerra mondiale. Né sta meglio (anzi sta peggio) il Tesoro americano.
Le due potenze anglosassoni si sono date il 2012-2013 come il biennio del rientro nell'equilibrio dei conti pubblici. Hanno anche indicato gli strumenti: taglio di spese, imposte sulle fasce abbienti, rientro dei sussidi dati a banche ed imprese per arginare la crisi. Nel frattempo però dovranno sostenere il finanziamento del Tesoro e soprattutto emettere una massa di titoli pubblici per sostituire quelli in scadenza alla fine di quest'anno e dell'anno prossimo. Si tratta di un ammontare enorme. Draghi conosce bene questo problema e meglio ancora di lui lo conosce Tremonti. Nel secondo semestre di quest'anno verranno a scadenza una massa notevole di titoli pubblici italiani. All'incirca si tratta di 200 miliardi di euro, proprio in sincronia con le scadenze ben superiori di titoli Usa, Gran Bretagna, Germania. Tremonti non ama parlare di questo problema che sta sospeso nel cielo dell'Occidente come una fitta coltre di nerissime nubi. Dice che il peggio è passato e usciremo meglio degli altri dalla crisi. In realtà il peggio deve ancora venire e nasconderlo non giova a nessuno. Altrettanto non giova il fallimento dell'operazione Fiat-Opel. Ho trattato questo tema la settimana scorsa e dunque non mi ripeterò. Auguro a Marchionne e alla Fiat di poter rimpiazzare lo scacco subìto in Germania con nuovi possibili accordi con altre imprese automobilistiche. Ma torno a ripetere che le iniziative di Marchionne non sono state messe in campo per desiderio di gloria ma per necessità di sopravvivenza. Se non andranno a buon fine la Fiat vivacchierà perché l'operazione Chrysler non basta a garantirne il futuro. Vivacchierà e peserà inevitabilmente sui contribuenti italiani. * * * Draghi - per tornare a lui - sostiene la necessità di riforme immediate e punta in particolare sulle pensioni. Prolungare l'età pensionabile e accelerare il sistema a contribuzione liberando così le risorse per rilanciare la crescita. Tremonti e il ministro del Lavoro, Sacconi, obiettano che la riforma si farà a tempo debito e che le risorse liberate saranno redistribuite all'interno del perimetro previdenziale. La preoccupazione di non turbare la pace sociale è giusta ma resta il dilemma posto dal governatore: come rilanciare la crescita?
Mi permetto di dire che le proposte del Pd di tassare con modeste e transitorie maggiorazioni i redditi al di sopra dei 120mila euro potrebbe fornire le risorse necessarie, insieme a provvedimenti anti-evasione che Visco aveva adottato e Tremonti smobilitato.

Post Scriptum. Non ho parlato di Silvio Berlusconi ma una cosa va ricordata. Il cardinale Bagnasco, nel discorso con il quale ieri ha chiuso la riunione della Conferenza episcopale italiana ha detto che la classe dirigente dovrebbe esser d'esempio educativo alle giovani generazioni con i suoi pensieri, i suoi comportamenti e lo stile di vita ed ha lamentato che ciò non stia avvenendo. Dargli torto mi sembra difficile. Berlusconi ha definito "berlusconiana" la relazione di Draghi; allo stesso titolo potrebbe definire "berlusconiano" l'incitamento di Bagnasco a comportamenti educativi. Ed avrebbe potuto definire "berlusconiane" anche le parole di Franceschini sempre in proposito dei valori educativi da trasmettere ai giovani. Io spero che il premier definisca "berlusconiane" anche queste mie riflessioni se avrà avuto il tempo e la voglia di leggerle. Ne sarei molto compiaciuto. Come ha detto recentemente Roberto Benigni: lei è un mito, presidente, e i miti più si allontanano e più grandeggiano. Perciò si allontani, per il bene suo e del paese.

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