mercoledì 31 marzo 2010

LA FINE DEL GIOCO di LIdia Ravera


Troppo tardi. E’ questa la sensazione che mi ha tenuta sveglia, questa notte. Ho deciso di accettare un giro di danza sulla pista della politica istituzionale troppo tardi. Mi sono ritirata, come una ragazza schizzinosa davanti alle proposte di un Principe Rospo, per una ventina d’anni e poi ho detto sì, in preda al panico e alla ripetizione, quando era troppo tardi. La sala sta chiudendo. Le luci si spengono. L’Italia che centocinquant’anni fa “s’è desta”, giace oggi in un sopore malato. La maggioranza degli italiani non ragiona, non giudica, non si informa. Il partito degli abulici cresce su sé stesso, nutrito dal malgoverno di centro destra (scandali, ruberie, volgarità, inefficienze, menzogne, furbizie, appalti truccati, nepotismi, alleanze ambigue con la malavita organizzata), nutrito dall’inerzia, dalla lentezza, dal conformismo, dalla pesantezza, dall’assenza di coraggio creatività e passione del centrosinistra.

Io stessa, siamo onesti... mi sono “lasciata candidare”. Non ho scelto, non ho deciso. E’ venuto da me un ex bancario, ex consigliere regionale e mi ha proposto di essere capolista della “Lista civica cittadini/e per Emma Bonino”. Io per Emma Bonino volevo fare qualcosa, così ho detto di sì. Ho lavorato per lei. Non per me stessa. Ho organizzato quattro incontri: da Bibli con Giovanni Bachelet. Alla Galleria “La nuova Pesa” con Concita De Gregorio e Serena Dandini. Al cinema Alcazar con Georgette Ranucci e Wim Wenders (ho mostrato in anteprima nazionale grazie a Georgette un documentario politico sull’immigrazione girato da Wenders in Calabria, bellissimo). Al teatro Sala Umberto con Simona Marchini, Daniela Poggi e Valentina Carnelutti (attrici, che hanno recitato un mio testo “La donna gigante”)... Sono andata a parlare negli incontri organizzati spontaneamente dai cittadini, per ascoltarmi...

E’ stato bello. Non posso negarlo. Ho sentito un calore che non conoscevo. Ho studiato il programma di Emma. Ho cercato di trasformare in proposte politiche i bisogni e i desideri che ho immaginato. Come per scrivere un romanzo, ho cercato di partire dal dolore. Quattro grandi capitoli: donne, giovani, vecchi, cultura. Come per scrivere un romanzo ho cercato di attingere al sentimento dell’empatia. Ho scritto e pensato e ascoltato... Potrebbe essere nobile e alta l’arte del fare politica, se la si prendesse come un incarico celeste. Invece... niente. Ha vinto Renata Polverini. Pompata dai soldi del grande piazzista che governa questo Paese. Ho portato un bel cestino di voti a Emma Bonino. Tanti per me, che non avevo un euro né un comitato né una segreteria ma soltanto una rete di donne (magnifiche: un aiuto spontaneo, un sollievo psicologico). Non abbastanza per lei. E’ troppo tardi. La situazione richiederebbe ben altre forze, ben altri sforzi...
No, non sono pentita. Sono soltanto triste.

Se un responsabile politico va trovato, a questo scacco matto in tre mosse, temo di dover pronunciare le due consonanti residuali di quello che fu un grande partito i massa (anzi due, fusionati): Pd.

Il Pd che cerca il centro. Il Pd vile. Il Pd che non rimuove i dirigenti che hanno sbagliato (quousque tandem, D’Alema, abutere patientia nostra?). Il Pd che non sente le grida degli operai cassintegrati ammazzati licenziati disoccupati e si barcamena con l’impresa, giocando al “piccolo governante” invece di farsi carico di una alternativa SOCIALE che non lasci col culo in terra i più deboli. Il Pd che non si apre, non si rinnova, non si autocritica. Il Pd che si difende, che tira a campare, che scontenta la base e tiene insieme una dirigenza fottuta, autoreferenziale, tonta. Il Pd che non sa opporre una visione del mondo, una strategia, un’analisi della realtà alla tattica, pur necessaria, della quotidianità politica.

Dopo la botta della lunga notte del lunedì, e ancora ieri e oggi, oscillo come un pendolo fra due propositi opposti: partire per “fuori di qui”. Oppure: iscrivermi al Pd, e cercare di scardinarlo dall’interno, trovare i bravi compagni sepolti, fare rete, buttar fuori quelli che devono essere buttati fuori. Si chiamava entrismo? Meglio che parta, vero?

Nelle more della ciclotimia una supplica: perché non ci mettiamo attorno a un tavolo, noi, e proviamo ad armare i nostri eserciti?
Noi chi: il popolo della primarie, il popolo di MicroMega, il popolo viola, il popolo della carriole de L’Aquila…noi. Diamoci un un nome.

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