Il Piceno per l'Ulivo esprime sconcerto e...preoccupazione per il clima politico in cui si è avviato il processo di costituzione del Partito Democratico nella provincia di Ascoli P.
Le divisioni interne dei DS vengono trasferite, con inaudita violenza, all'interno del percorso costitutivo del PD: viene offuscata l'idea di una decisione storica che interessa tutta la società italiana; si alimenta l'opinione dei nostri avversari che il cambiamento sia una pura operazione di potere e non una risposta alla pressione sociale per rinnovare la politica, per la nascita di un “partito nuovo” nei contenuti e nei metodi e che abbia l'interesse generale del Paese come sua primaria missione. In questo clima si inserisce anche la decisione di escludere la rete dei Cittadini per l'Ulivo dal Comitato Provinciale. Eppure numerose sono le associazioni sorte su iniziativa di ragazzi e ragazze dei CpU con l'obiettivo di coinvolgere coetanei nel processo di nascita di un partito nuovo per un cambiamento del senso e del ruolo della politica. Eppure l'associazione Il Piceno per l'Ulivo è da anni che assume iniziative perchè le diverse forze politiche si pongano l'obiettivo storico dell'unità dell'area democratico-progressista. Quando non tutto era deciso e scontato! A queste iniziative hanno partecipato migliaia di cittadini non iscritti a partiti ed esponenti dei partiti storici: Intini, Morri, Galeazzi, Magistrelli, Follini, Colonnella, Sbarbati, Benvenuto, ecc.
Questa “conventio ad escludendum” e la brutalità nel costruirsi “un nemico interno” costituisce un ostacolo per gli obiettivi del nascente PD. Contraddice i positivi segnali di apertura che sono venuti dai primi passi del “partito nuovo”: 50% uomini e 50% donne; 1/3 DS, 1/3 DL, 1/3 società; voto ai sedicenni; voto agli immigrati. Ad una linea di grande apertura e di grande generosità nazionale corrispondono nel territorio scelte concrete di chiusura, di brutale polemica interna di vecchia memoria... e di cui sentiamo il bisogno di liberarci!
Questi sistemi alimentano nell'opinione pubblica l'idea che in “politica” ciò che si dice non corrisponde a ciò che si fa. Questo è il maggiore ostacolo per ritessere la fiducia fra i cittadini e la politica. Un ostacolo all'affermarsi del PD come grande partito nuovo della società italiana.
La nostra iniziativa vuole dissipare un clima di chiusura settaria che si costruisce artificiosamente nella provincia di Ascoli e ridare dignità e senso alla straordinaria decisione politica che stiamo attuando.
Ultima questione: il rispetto delle regole che ci diamo ed un organismo rigoroso che le faccia applicare.
Per pretendere dai cittadini il rispetto della legalità dobbiamo esserne noi esempio concreto e visibile.
IL PICENO PER L'ULIVO
lunedì 30 luglio 2007
SALGONO A TRE I RICORSI CONTRO LA FORMAZIONE DEL COMITATO PROVINCIALE PER IL PD DI ASCOLI PICENO
Al Collegio dei garanti e ufficio tecnico
e p.c. al Comitato 14 ottobre, Sara Giannini segr. Ds regione Marche, Vittoriano Solazzi segreteria Margherita regione Marche, Mauro Gionni segr. prov. DsAscoli Piceno e Orlando Rugieri segr. prov. Margherita
Il "Movimento Cittadino per il Partito Democratico", riunitosi il 19 luglio 2007, ascoltata la relazione del presidente e dopo ampia discussione, approva la decisione di iniziare il percorso che porterà all’Assemblea Costituente del 14 ottobre 2007 e delibera di indicare 15 membri nelle persone di:
Anna Maria Spinelli, Alceo Lucidi, Stefania Spacca, Antonio Savino, Laura Liberti, Straccia Emidio, Paola Carloni, Antonio Cicchi, Mariagrazia Guidi, Mauro Buonamano, Mauro Calvaresi, Lino Rossetti, Vito Amabili, Gaetano Sorge e Tonino Armata per la costituzione del Comitato costituente per la provincia di Ascoli Piceno.
Il 19 luglio 2007), i segretari provinciali di Ds (Mauro Gionni), Margherita (Orlando Ruggieri) e Repubblicani Europei (Aldo Premoli), hanno reso noto i componenti del Comitato provinciale del Partito Democratico senza nessun coinvolgimento delle associazioni della società civile che si sono occupati della costituzione del Partito Democratico .
Il Comitato Cittadino per il Partito Democratico di San Benedetto del Tronto, denuncia con forza questo ignobile metodo, perché le liste delle associazioni dovranno essere vere (un terzo ai Ds, un terzo alla Margherita e un terzo alle associazioni della società civile) e non il surrogato dei suddetti partiti. Pertanto chiediano l'annullamento del Comitato costituente di Ascoli Piceno.
Cordiali saluti. Il presidente
Tonino Armata
e p.c. al Comitato 14 ottobre, Sara Giannini segr. Ds regione Marche, Vittoriano Solazzi segreteria Margherita regione Marche, Mauro Gionni segr. prov. DsAscoli Piceno e Orlando Rugieri segr. prov. Margherita
Il "Movimento Cittadino per il Partito Democratico", riunitosi il 19 luglio 2007, ascoltata la relazione del presidente e dopo ampia discussione, approva la decisione di iniziare il percorso che porterà all’Assemblea Costituente del 14 ottobre 2007 e delibera di indicare 15 membri nelle persone di:
Anna Maria Spinelli, Alceo Lucidi, Stefania Spacca, Antonio Savino, Laura Liberti, Straccia Emidio, Paola Carloni, Antonio Cicchi, Mariagrazia Guidi, Mauro Buonamano, Mauro Calvaresi, Lino Rossetti, Vito Amabili, Gaetano Sorge e Tonino Armata per la costituzione del Comitato costituente per la provincia di Ascoli Piceno.
Il 19 luglio 2007), i segretari provinciali di Ds (Mauro Gionni), Margherita (Orlando Ruggieri) e Repubblicani Europei (Aldo Premoli), hanno reso noto i componenti del Comitato provinciale del Partito Democratico senza nessun coinvolgimento delle associazioni della società civile che si sono occupati della costituzione del Partito Democratico .
Il Comitato Cittadino per il Partito Democratico di San Benedetto del Tronto, denuncia con forza questo ignobile metodo, perché le liste delle associazioni dovranno essere vere (un terzo ai Ds, un terzo alla Margherita e un terzo alle associazioni della società civile) e non il surrogato dei suddetti partiti. Pertanto chiediano l'annullamento del Comitato costituente di Ascoli Piceno.
Cordiali saluti. Il presidente
Tonino Armata
giovedì 26 luglio 2007
ELENCO PRINCIPALI SCADENZE IN VISTA DELLA COSTITUZIONE DEL PARTITO DEMOCRATICO
Entro il 30 luglio 2007
Presentazione delle dichiarazioni di candidatura alla carica di Segretario Nazionale, corredate da una dichiarazione di intenti e da un numero di firme di sottoscrittori compreso tra duemila e tremila, di cui almeno cento in cinque diverse regioni.
Le dichiarazioni di candidature sono accettate se corredate, entro i termini previsti per la presentazione delle liste (21 e 22 settembre 2007), da dichiarazioni di liste presentate in almeno 25 diversi collegi, in non meno di cinque differenti regioni.
Entro il 12 settembre 2007
Presentazione delle dichiarazioni di candidatura alla carica di Segretario Regionale, corredate da una dichiarazione di intenti e da un numero di firme compreso tra 500 e 750 per le Regioni fino a un milione di abitanti e tra 1000 e 1500 per le Regioni con popolazione superiore a un milione di abitanti.
Tra il 21 e il 22 settembre 2007
Presentazione delle liste per l’elezione dell’Assemblea Nazionale.
Le liste devono essere plurinominali, con alternanza di genere.
Le liste devono comprendere un numero di candidati non superiore al numero dei componenti da eleggere nei relativi collegi e non inferiore ai due terzi.
Nessuno può candidarsi in più di un collegio.
La lista indica un candidato Segretario nazionale.
Il collegamento nella circoscrizione può avvenire con una dichiarazione di intenti.
Non più della metà di liste collegate può avere come capolista persone dello stesso genere.
Una lista di collegio deve essere corredata da un numero di firme compreso tra 100 e 150.
Presentazione delle liste per l’elezione delle Assemblee regionali.
Per ogni collegio le liste devono essere plurinominali, con alternanza di genere e composte da un numero di componenti pari al doppio di quello previsto per l’elezione dell’Assemblea Nazionale.
Dal 23 settembre al 13 ottobre 2007
Svolgimento della campagna elettorale:
Il Collegio nazionale dei Garanti predispone un Regolamento di autodisciplina della campagna elettorale idoneo ad assicurare condizioni di parità fra i candidati.
Nel Regolamento sono altresì disciplinate le modalità con le quali è possibile rendere pubblici e diffondere gli annunci di dibattiti, tavole rotonde, conferenze, nonché discorsi svolti dai candidati.
L’Ufficio di Presidenza promuove assemblee ed iniziative pubbliche nel corso delle quali ha luogo un confronto tra i candidati o i loro delegati a parità di condizioni.
14 ottobre 2007
Elezione dei componenti dell’Assemblea costituente nazionale e, in collegamento con essi, del Segretario politico nazionale del PD.
Elezione dei componenti delle Assemblee regionali e, in collegamento con essi, dei Segretari regionali del partito.
Le operazioni di voto si svolgono in un’unica giornata dalle ore 7 alle ore 20.
Per essere ammessi al voto occorre esibire al seggio un documento di identificazione e, ad eccezione dei non ancora maggiorenni e dei non cittadini italiani, la propria tessera elettorale.
E’ necessario che l’elettore dia espresso consenso a che il proprio nominativo ed i propri recapiti siano inseriti nell’elenco dei partecipanti alla votazione ed a che l’elenco stesso sia reso consultabile per ogni eventuale verifica relativa all’effettiva partecipazione al voto, nel rispetto della normativa sulla tutela dei dati personali.
27 ottobre 2007
Prima riunione dell’Assemblea Nazionale, convocata dal Presidente Romano Prodi.
Entro il 13 novembre 2007
Insediamento delle Assemblee Regionali, convocate dal Presidente Romano Prodi.
Entro il 31 dicembre 2007
Elezione delle Assemblee provinciali e dei Segretari provinciali.
Presentazione delle dichiarazioni di candidatura alla carica di Segretario Nazionale, corredate da una dichiarazione di intenti e da un numero di firme di sottoscrittori compreso tra duemila e tremila, di cui almeno cento in cinque diverse regioni.
Le dichiarazioni di candidature sono accettate se corredate, entro i termini previsti per la presentazione delle liste (21 e 22 settembre 2007), da dichiarazioni di liste presentate in almeno 25 diversi collegi, in non meno di cinque differenti regioni.
Entro il 12 settembre 2007
Presentazione delle dichiarazioni di candidatura alla carica di Segretario Regionale, corredate da una dichiarazione di intenti e da un numero di firme compreso tra 500 e 750 per le Regioni fino a un milione di abitanti e tra 1000 e 1500 per le Regioni con popolazione superiore a un milione di abitanti.
Tra il 21 e il 22 settembre 2007
Presentazione delle liste per l’elezione dell’Assemblea Nazionale.
Le liste devono essere plurinominali, con alternanza di genere.
Le liste devono comprendere un numero di candidati non superiore al numero dei componenti da eleggere nei relativi collegi e non inferiore ai due terzi.
Nessuno può candidarsi in più di un collegio.
La lista indica un candidato Segretario nazionale.
Il collegamento nella circoscrizione può avvenire con una dichiarazione di intenti.
Non più della metà di liste collegate può avere come capolista persone dello stesso genere.
Una lista di collegio deve essere corredata da un numero di firme compreso tra 100 e 150.
Presentazione delle liste per l’elezione delle Assemblee regionali.
Per ogni collegio le liste devono essere plurinominali, con alternanza di genere e composte da un numero di componenti pari al doppio di quello previsto per l’elezione dell’Assemblea Nazionale.
Dal 23 settembre al 13 ottobre 2007
Svolgimento della campagna elettorale:
Il Collegio nazionale dei Garanti predispone un Regolamento di autodisciplina della campagna elettorale idoneo ad assicurare condizioni di parità fra i candidati.
Nel Regolamento sono altresì disciplinate le modalità con le quali è possibile rendere pubblici e diffondere gli annunci di dibattiti, tavole rotonde, conferenze, nonché discorsi svolti dai candidati.
L’Ufficio di Presidenza promuove assemblee ed iniziative pubbliche nel corso delle quali ha luogo un confronto tra i candidati o i loro delegati a parità di condizioni.
14 ottobre 2007
Elezione dei componenti dell’Assemblea costituente nazionale e, in collegamento con essi, del Segretario politico nazionale del PD.
Elezione dei componenti delle Assemblee regionali e, in collegamento con essi, dei Segretari regionali del partito.
Le operazioni di voto si svolgono in un’unica giornata dalle ore 7 alle ore 20.
Per essere ammessi al voto occorre esibire al seggio un documento di identificazione e, ad eccezione dei non ancora maggiorenni e dei non cittadini italiani, la propria tessera elettorale.
E’ necessario che l’elettore dia espresso consenso a che il proprio nominativo ed i propri recapiti siano inseriti nell’elenco dei partecipanti alla votazione ed a che l’elenco stesso sia reso consultabile per ogni eventuale verifica relativa all’effettiva partecipazione al voto, nel rispetto della normativa sulla tutela dei dati personali.
27 ottobre 2007
Prima riunione dell’Assemblea Nazionale, convocata dal Presidente Romano Prodi.
Entro il 13 novembre 2007
Insediamento delle Assemblee Regionali, convocate dal Presidente Romano Prodi.
Entro il 31 dicembre 2007
Elezione delle Assemblee provinciali e dei Segretari provinciali.
RINVIATO SEMINARIO DI VALLEDACQUA
L’emergenza incendi ancora attiva nel territorio dell’acquasantano ha indotto i rappresentanti locali della Rete dei cittadini per l’ulivo a rinviare il seminario nazionale sul tema “La nuova politica idee valori e prospettive del partito democratico” previsto al monastero camaldolese di Valledacqua per domani 27 e sabato 28 luglio.
Nonostante il fatto che la situazione appare fortunatamente meno grave dei giorni scorsi, dopo lo straordinario lavoro di contenimento dell’avanzata del fronte del fuoco operata da parte delle forze dell’ordine, di squadre di volontari e della protezione civile, la prudenza ha indotto gli organizzatori a rinviarlo a settembre.
Elevatissimo il numero di partecipanti che già avevano confermato la loro presenza al seminario tanto che per garantire ad un numero più elevato di persone la possibilità di prendervi parte gli organizzatori erano stati costretti a richiedere, per il due giorni, all’amministrazione comunale di Acquasanta la possibilità di utilizzare anche il teatro per lo svolgimento dei lavori di uno dei focus group.
In qualità di relatori avevano, tra gli altri, confermato la loro presenza a questo momento di riflessione sulla costruzione della nuova forza politica, il Viceministro della Pubblica Istruzione Mariangela Bastico, i sottosegretari Alessandro Pajno, Franca Donaggio e Pietro Colonnella, il Sen. Sergio Zavoli, i deputati Vannucci e Galeazzi, il Sindaco di Ancona Fabio Sturani, i rappresentanti delle segreterie nazionali dei giovani della Margherita e della Sinistra Giovanile, Fabrizio Giuliani in rappresentanza dell’esecutivo nazionale della Rete dei Cittadini per l’Ulivo, il Presidente della Provincia di Pesaro e Urbino Palmiro Ucchielli, l’assessore della Provincia di Roma Vincenzo Vita e il vicesindaco della capitale Maria Pia Gravaglia.
Tutti, nell’esprimere solidarietà alle istituzioni e popolazioni del luogo, hanno confermato la loro presenza alla nuova edizione del seminario che si svolgerà nei primi giorni di settembre.
Nonostante il fatto che la situazione appare fortunatamente meno grave dei giorni scorsi, dopo lo straordinario lavoro di contenimento dell’avanzata del fronte del fuoco operata da parte delle forze dell’ordine, di squadre di volontari e della protezione civile, la prudenza ha indotto gli organizzatori a rinviarlo a settembre.
Elevatissimo il numero di partecipanti che già avevano confermato la loro presenza al seminario tanto che per garantire ad un numero più elevato di persone la possibilità di prendervi parte gli organizzatori erano stati costretti a richiedere, per il due giorni, all’amministrazione comunale di Acquasanta la possibilità di utilizzare anche il teatro per lo svolgimento dei lavori di uno dei focus group.
In qualità di relatori avevano, tra gli altri, confermato la loro presenza a questo momento di riflessione sulla costruzione della nuova forza politica, il Viceministro della Pubblica Istruzione Mariangela Bastico, i sottosegretari Alessandro Pajno, Franca Donaggio e Pietro Colonnella, il Sen. Sergio Zavoli, i deputati Vannucci e Galeazzi, il Sindaco di Ancona Fabio Sturani, i rappresentanti delle segreterie nazionali dei giovani della Margherita e della Sinistra Giovanile, Fabrizio Giuliani in rappresentanza dell’esecutivo nazionale della Rete dei Cittadini per l’Ulivo, il Presidente della Provincia di Pesaro e Urbino Palmiro Ucchielli, l’assessore della Provincia di Roma Vincenzo Vita e il vicesindaco della capitale Maria Pia Gravaglia.
Tutti, nell’esprimere solidarietà alle istituzioni e popolazioni del luogo, hanno confermato la loro presenza alla nuova edizione del seminario che si svolgerà nei primi giorni di settembre.
lunedì 23 luglio 2007
LETTERA AL COLLEGIO DEI GARANTI ED AI VERTICI PROVINCIALI DI DS E MARGHERITA
Siamo un gruppo di uomini e donne che nel territorio Piceno hanno dato vita ai circoli aderenti alla Rete Cittadini per l’Ulivo, una struttura che ha permesso a molti, estranei alla gestione dei partiti, di auto-organizzarsi, esprimere le proprie idee, e sentirsi protagonisti nel processo di costruzione del P.D.
Abbiamo apprezzato il percorso coraggioso e innovativo intrapreso dai due maggiori partiti del centro sinistra per dare vita ad un nuovo soggetto politico che sappia raccogliere le speranze e le capacità di quanti desiderano una società più giusta e sicura per tutti, uno stato più efficiente, una democrazia più trasparente e partecipata. Senza alcuna pretesa di rappresentare l’infinita complessità della “società civile”, forti semplicemente della nostra esperienza di donne e uomini che vivono e lavorano nel paese reale, desideriamo portare in questo percorso un contributo di concretezza, libero dagli inevitabili condizionamenti delle vecchie logiche partitiche.
Siamo, però, convinti che per coinvolgere il maggior numero di persone in questo ambizioso progetto è necessario restituire dignità alla vita politica, e vitale riportare l’entusiasmo e la fiducia nella partecipazione.
La politica italiana può cambiare a condizione di cambiarne le vecchie regole, dando una reale attuazione al principio partecipativo, anche attraverso il rinnovamento e la turnazione dei vertici.
Soltanto così, la politica tornerà ad essere il vero strumento di coinvolgimento nella vita democratica e non più affare di pochi.
Per questo, con preoccupazione abbiamo appreso dai giornali (v. Messaggero di sabato 21 luglio 2007) che i vertici provinciali di Ds, Margherita e Repubblicani Europei hanno formalizzato i nomi dei componenti del comitato provinciale, un organo che ha, tra gli altri, il delicato ruolo di coordinare la preparazione delle primarie del 14 ottobre.
Ogni nostra richiesta di partecipazione a tale comitato, avanzata ad ambo i principali partiti in pieno spirito di collaborazione, è stata respinta con motivazioni pretestuose; non abbiamo avuto alcuna notizia di incontri politici “allargati” a soggetti diversi dai vertici di partito; né sono stati resi noti i criteri con cui tali vertici hanno deciso chi dovesse, all’interno del comitato provinciale, rappresentare la cosiddetta “società civile”.
Il successo delle primarie del 14 ottobre, una partecipazione ampia a tale evento, è indissolubilmente legato a scelte di principio e di metodo nuove: per questo motivo, invitiamo i dirigenti politici a rispettare lo spirito partecipativo del Partito Democratico e chiediamo che l’esperienza dei circoli territoriali dei Cittadini per l’Ulivo (presente nel territorio della nostra provincia con ben 14 circoli), sia coinvolta nella composizione del comitato provinciale. Da cittadini, auspichiamo che tali dirigenti, forti di lunghi anni di responsabilità ed esperienza politica, sappiano dare alle elettrici ed agli elettori del 14 ottobre un segno concreto e coraggioso della loro capacità di aprire spazi nuovi a nuove e spontanee istanze di partecipazione.
I Circoli aderenti alla Rete dei Cittadini per l’Ulivo del territorio Piceno.
Abbiamo apprezzato il percorso coraggioso e innovativo intrapreso dai due maggiori partiti del centro sinistra per dare vita ad un nuovo soggetto politico che sappia raccogliere le speranze e le capacità di quanti desiderano una società più giusta e sicura per tutti, uno stato più efficiente, una democrazia più trasparente e partecipata. Senza alcuna pretesa di rappresentare l’infinita complessità della “società civile”, forti semplicemente della nostra esperienza di donne e uomini che vivono e lavorano nel paese reale, desideriamo portare in questo percorso un contributo di concretezza, libero dagli inevitabili condizionamenti delle vecchie logiche partitiche.
Siamo, però, convinti che per coinvolgere il maggior numero di persone in questo ambizioso progetto è necessario restituire dignità alla vita politica, e vitale riportare l’entusiasmo e la fiducia nella partecipazione.
La politica italiana può cambiare a condizione di cambiarne le vecchie regole, dando una reale attuazione al principio partecipativo, anche attraverso il rinnovamento e la turnazione dei vertici.
Soltanto così, la politica tornerà ad essere il vero strumento di coinvolgimento nella vita democratica e non più affare di pochi.
Per questo, con preoccupazione abbiamo appreso dai giornali (v. Messaggero di sabato 21 luglio 2007) che i vertici provinciali di Ds, Margherita e Repubblicani Europei hanno formalizzato i nomi dei componenti del comitato provinciale, un organo che ha, tra gli altri, il delicato ruolo di coordinare la preparazione delle primarie del 14 ottobre.
Ogni nostra richiesta di partecipazione a tale comitato, avanzata ad ambo i principali partiti in pieno spirito di collaborazione, è stata respinta con motivazioni pretestuose; non abbiamo avuto alcuna notizia di incontri politici “allargati” a soggetti diversi dai vertici di partito; né sono stati resi noti i criteri con cui tali vertici hanno deciso chi dovesse, all’interno del comitato provinciale, rappresentare la cosiddetta “società civile”.
Il successo delle primarie del 14 ottobre, una partecipazione ampia a tale evento, è indissolubilmente legato a scelte di principio e di metodo nuove: per questo motivo, invitiamo i dirigenti politici a rispettare lo spirito partecipativo del Partito Democratico e chiediamo che l’esperienza dei circoli territoriali dei Cittadini per l’Ulivo (presente nel territorio della nostra provincia con ben 14 circoli), sia coinvolta nella composizione del comitato provinciale. Da cittadini, auspichiamo che tali dirigenti, forti di lunghi anni di responsabilità ed esperienza politica, sappiano dare alle elettrici ed agli elettori del 14 ottobre un segno concreto e coraggioso della loro capacità di aprire spazi nuovi a nuove e spontanee istanze di partecipazione.
I Circoli aderenti alla Rete dei Cittadini per l’Ulivo del territorio Piceno.
giovedì 12 luglio 2007
Seminario sul Partito Democratico
Venerdì 27 e Sabato 28 Luglio nella suggestiva cornice del monastero camaldolese di valledacqua , organizzato dai circoli della rete dei cittadini per l’ulivo delle Marche si terrà il seminario sul tema Valori e prospettive del Partito Democratico.
Appena sarà giunta la conferma da parte di tutti i relatori verrà pubblicato il programma.
E’ possibile prenotarsi scrivendo una mail .
Appena sarà giunta la conferma da parte di tutti i relatori verrà pubblicato il programma.
E’ possibile prenotarsi scrivendo una mail .
mercoledì 11 luglio 2007
Un'Italia unita, moderna e giusta.
IL TESTO INTEGRALE DEL DISCORSO DI WALTER VELTRONI
Torino, 27 Giugno 2007
"Fare un'Italia nuova. E' questa la ragione, la missione, il senso del Partito democratico.
Riunire l'Italia, farla sentire di nuovo una grande nazione, cosciente e orgogliosa di sé.
Unire gli italiani, unire ciò che oggi viene contrapposto: Nord e Sud, giovani e anziani, operai e lavoratori autonomi.
Ridare speranza ai nuovi italiani, ai ragazzi di questo Paese convinti, per la prima volta dal dopoguerra, che il futuro faccia paura, che il loro destino sia l'insicurezza sociale e personale.
Per questo nasce il Partito democratico. Che si chiamerà così. A indicare un'identità che si definisce con la più grande conquista del Novecento: la coscienza che le comunità umane possono esistere e convivere solo con la libertà individuale e collettiva, con la piena libertà delle idee e la libertà di intraprendere. Con la libertà intrecciata alla giustizia sociale e all'irrinunciabile tensione all'uguaglianza degli individui, che oggi vuol dire garanzia delle stesse opportunità per ognuno.
Il Partito democratico, il partito di chi crede che la crescita economica e l'equa ripartizione della ricchezza non siano obiettivi in conflitto, e che senza l'una non vi potrà essere l'altra.
Il Partito democratico, il partito dell'innovazione, del cambiamento realistico e radicale, della sfida ai conservatorismi, di destra e di sinistra, che paralizzano il nostro Paese.
Il Partito democratico, il partito che dovrà dare l'ultima spallata a quel muro che per troppo tempo ha resistito e che ha ostacolato la piena irruzione della soggettività femminile nella decisione politica e nella vita del Paese. La rivoluzione delle donne ha affermato in tutte le culture politiche il principio del riconoscimento della differenza di genere come elemento costitutivo di una democrazia moderna. E' questa esperienza che dovrà essere decisiva, fin dal momento della fondazione del nostro partito.
Il Partito democratico, un partito che nasce dalla confluenza di grandi storie politiche, culturali, umane. Che nasce avendo dentro di sé l'eredità di quelle formazioni che hanno restituito la libertà agli italiani, di quelle donne e di quegli uomini che hanno pagato con il carcere e con la propria vita il sogno di dare ad altri la libertà perduta. Quelle formazioni che hanno fatto crescere l'Italia e gli italiani, che hanno portato il nostro Paese a trasformarsi da una comunità sconfitta a una delle nazioni che siedono a pieno titolo al tavolo dei grandi della Terra: quanta strada è stata fatta, da quando Alcide De Gasperi, alla Conferenza di Pace di Parigi, si rivolgeva al mondo che lo ascoltava dicendo: "Tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me". Quelle formazioni che hanno combattuto il terrorismo e l'hanno sconfitto.
Ma il Partito Democratico non è la pura conclusione di un cammino. Se lo fosse, o se si raccontasse così, inchioderebbe se stesso al passato.
Invece, ciò di cui l'Italia ha bisogno è un partito del nuovo millennio. Una forza del cambiamento, libera da ideologismi, libera dall'obbligo di apparire, di volta in volta, moderata o estremista per legittimare o cancellare la propria storia. Un partito che non nasce dal nulla, e insieme un partito del tutto nuovo.
E' quello a cui ha pensato, a cui ha lavorato, per cui si è speso con coerenza e determinazione il fondatore dell'Ulivo, Romano Prodi.
Il Partito democratico, un partito aperto che si propone, perché vuole e ne ha bisogno, di affascinare quei milioni di italiani che credono nei valori dell'innovazione, del talento, del merito, delle pari opportunità. Quei milioni di italiani che nelle imprese, negli uffici e nelle fabbriche dove lavorano, nelle scuole dove insegnano, sentono di voler fare qualcosa per il loro Paese, per i loro figli. Quei milioni di italiani che si impegnano nel volontariato, che fanno vivere esperienze quotidiane e concrete di solidarietà. Quei milioni di italiani che trovano la politica chiusa, e che se provano ad avvicinarsi ad essa è più facile che si imbattano nella richiesta di aderire ad una corrente o ad un gruppo di potere, piuttosto che a un'idea, ad un progetto.Sono convinto che il 14 ottobre sarà un giorno importante per la democrazia italiana. Nasce, in forma nuova, un partito nuovo. Nasce consentendo a chiunque creda in questo progetto di iscriversi, naturalmente e direttamente, e di candidarsi. Associazioni e gruppi, comitati e movimenti, singole persone potranno, nello stesso momento, formare un nuovo partito e decidere gli organi dirigenti e il leader nazionale.
E' un fatto mai accaduto prima. E' stato sempre più facile che nuovi partiti nascessero da scissioni o da proiezioni personali di leader carismatici.
Nel Partito democratico ognuno sarà e dovrà essere, fin dal primo momento, alla stessa stregua dell'altro. Per questo abbiamo voluto il principio "una testa, un voto".
Ds e Margherita, e per primi Piero Fassino e Francesco Rutelli che hanno saputo guidarli all'appuntamento decisivo, insieme a Romano Prodi che non ha mai smesso di crederci e di lavorare per questo, hanno avuto l'enorme merito di cogliere quella che era davvero l'ultima occasione, hanno avuto il grande coraggio di accettare la sfida. Di mettere in gioco se stessi, con una generosità che non ha precedenti in una lunga storia politica abituata alle separazioni più che agli incontri, alla valutazione del tornaconto di parte più che degli interessi generali. Le forze politiche che hanno deciso con i loro congressi di andare oltre se stesse, hanno compiuto una scelta che resterà nella storia politica del Paese. Il mio pensiero, in questo momento, è rivolto al coraggio e alla passione politica di tanti italiani che in questi anni hanno tenuto vive le idee della sinistra e dei democratici.
Unire le culture e le forze riformiste del nostro Paese. Superare la parzialità e l'insufficienza di ognuna di esse, di ognuno di noi. Dar vita a una forza plurale attraverso non il semplice accostamento, ma una creazione nuova. Far nascere, finalmente, il Partito democratico, la grande forza riformista che l'Italia non ha mai avuto.
Il cammino iniziò nel 1995, per iniziativa di Romano Prodi. Cominciò facendo nascere, in tutta Italia, comitati di cittadini. Comitati che univano le forze politiche e la società civile. Così vincemmo elezioni che sembravano perdute e così governammo l'Italia assumendoci responsabilità alte e difficili. Così raggiungemmo l'obiettivo dell'Europa. E non posso, qui, non rendere omaggio a un grande artefice di quel cammino, ad un protagonista della vita del Paese e delle nostre istituzioni: Carlo Azeglio Ciampi.
In quegli anni assumemmo anche, con Massimo D'Alema, il compito di interpretare un ruolo attivo dell'Italia nei momenti più aspri delle violazioni dei diritti umani nei Balcani. Un'Italia che non voltava lo sguardo dall'altra parte. Un'Italia che accettava e sosteneva la lotta, riuscita, per sconfiggere la logica della superiorità etnica che stava riportando il cuore dell'Europa nel baratro delle fosse comuni. Per sostenere che la pace, dove non c'è, non può essere difesa, ma va ricostruita. Dalla comunità internazionale, lasciando da parte inerzie colpevoli e presunzioni di unilateralismo. Ponendosi agli antipodi di quella aberrazione concettuale che è la "guerra preventiva" e di quella follia che è stato l'intervento in Iraq.
Personalmente ho creduto alla prospettiva del Partito democratico anche quando pareva difficile, quando era considerata lontana e impossibile. Mi sembrava che con l'abbattimento del Muro, con la vittoria della libertà sulle dittature comuniste, potesse aprirsi un tempo nuovo. Un tempo di libertà, un tempo di ricerca fuori dai recinti ideologici, un tempo di curiosità intellettuale e di incontro con l'altro. Un tempo di ponti e non più di fili spinati.
Mi sembrava che si aprisse la possibilità di costruire un campo ampio e pluralista, capace di comprendere chi pensava che con la fine degli "ismi" non fosse finito il bisogno di giustizia sociale, di riscatto degli ultimi, di difesa dei diritti umani e civili. Il bisogno di una sinistra moderna e innovativa, per chi ad essa sentiva di appartenere e vedeva aprirsi opportunità inedite per rispondere, in modo nuovo, ai propri compiti di sempre.
Ora, dopo un percorso inevitabilmente travagliato, questo sogno si sta realizzando, e si sta facendo strada, credo non solo in Italia, l'idea che occorra far vivere un nuovo campo del pensiero democratico, delle idee di libertà, di giustizia sociale e di innovazione.
L'Europa è andata a destra, in questi anni, perché la sinistra è apparsa imprigionata, salvo eccezioni, in schemi che l'hanno fatta apparire vecchia e conservatrice, ideologica e chiusa. Ad una società in movimento, veloce, portatrice di domande e bisogni del tutto inediti, si è risposto con la logica dei "blocchi sociali" e della pura tutela di conquiste la cui difesa immobile finiva con il privare di diritti fondamentali altri pezzi di società.
Il Partito democratico dovrà saper corrispondere alle nuove domande. Al bisogno di libertà e di fluidità sociale di ceti sempre più mobili, coniugando queste esigenze con la ragione della sua stessa esistenza, e cioè la costruzione di una società in cui le capacità di ciascuno possano essere messe alla prova indipendentemente dalle condizioni di partenza. Di una società che "si prenda carico", che non sia cinica o egoista, che si ponga il problema che l'Istat ci ha appena detto essere intatto: la distanza tra chi sta molto bene e chi sta molto male, in Italia, non accenna a diminuire.
Una società dove la precarietà non sia la regola, dove non sia l'incertezza a segnare, a ferire, la vita delle persone.
E' la precarietà soprattutto dei giovani, dei nostri ragazzi, delle nostre ragazze. In un tempo fantastico della vita viene chiesto loro solo di "aspettare". Aspettare di avere un lavoro certo, un mutuo per la casa e, con questi, la possibilità di mettere su famiglia e avere dei figli. La vita non può essere saltuaria. La vita non può essere part-time. Un imprenditore può assumere così, all'inizio, ma poi spetta alla comunità rendere certo l'incerto, per il ragazzo e per l'impresa.
E' la lotta alla precarietà, la grande frontiera che il Partito democratico ha davanti a sé.
Io qui oggi parlo non da uomo di partito e neanche da uomo di parte. Parlo da italiano.
Da persona che ama il suo Paese e pensa che il destino dell'Italia venga davvero prima di ogni altra ragione o considerazione particolare.
Guardo il mio Paese e se vedo segni di profondi cambiamenti, vedo anche indizi di un declino possibile: la precarietà, appunto. E poi l'invecchiamento della popolazione, la scarsa istruzione, la debolezza della ricerca, l'inefficienza di molti servizi collettivi, un sistema fiscale in cui convivono sacche di evasione ed una pressione troppo alta. Vedo la tendenza all'illegalità diffusa, a rifugiarsi in difese corporative o in settori di rendita, a difendere con le unghie e con i denti grandi e piccoli privilegi, a evitare ogni possibile apertura alla concorrenza.
E nella nostra società, a fianco di una grande ricchezza a volte nascosta in termini di "capitale sociale", sento esserci uno stato d'animo fatto di smarrimento, di stanchezza, di pessimismo, persino di forme di intolleranza, di incattivimento, di omofobia, di diffidenza e chiusura verso tutto ciò che appare estraneo, diverso.
Sono tutti segni del rischio di declino segnalato in un bel saggio da Michele Salvati, che qui, in questo momento, vorrei ricordare insieme a Pietro Scoppola e ad altri come coloro che hanno stimolato con più determinazione e coerenza la nascita di questo partito nuovo.
L'Italia ha bisogno di crescita. Il governo Prodi sta lavorando per questo, e le cifre, i risultati, stanno confortando lo sforzo e le scelte fatte. In una situazione di straordinaria difficoltà e con una eredità pesante sulle spalle, in un anno il governo ha portato avanti una grande opera di risanamento finanziario che oggi fa rispettare all'Italia i parametri europei, ha rotto un lungo immobilismo con le liberalizzazioni e l'apertura dei mercati, ha restituito credibilità all'Italia sia in sede politico-istituzionale che in sede economica.
E sia chiaro che il primo compito del nascente Partito democratico è il pieno, coerente e deciso sostegno all'azione del Governo Prodi, al cui successo sono legate molte delle prospettive dei democratici.
L'Italia deve crescere, deve crescere e investire sulla sua competitività, sul talento e sulla creatività dei suoi ceti produttivi, sull'unicità della sua bellezza e della sua cultura. La cultura, il nostro patrimonio ambientale, monumentale, artistico: è qualcosa che certo non teme delocalizzazioni, che è legato alla nostra storia e al nostro territorio, che è una delle nostre più grandi risorse, un elemento della nostra identità e della nostra forza nel mondo.
Crescere e competere è possibile, si è dimostrato. Il sistema bancario italiano non è più quella frammentazione di soggetti che è stato per molto tempo. Oggi banche e industrie nazionali acquistano, conquistano ed entrano a far parte di reti e gruppi europei. La nazionalità non si difende con le barriere, ma con una maggiore competitività, con un'ampia disponibilità all'innovazione, con la capacità del sistema Paese di promuovere e di accompagnare.
Penso ad esempio alle medie imprese. Il Paese vive di questo. Sono il cuore dell'Italia che produce, a cominciare dal Nord, anche perché ciascuna di esse porta con sé nella competizione globale un gran numero di micro-imprese. Stanno creando sviluppo, sono una delle carte più alte che abbiamo in mano per raggiungere possibili futuri successi. Vanno sostenute, vanno aiutate a diventare grandi, a non cadere in una spirale esclusivamente finanziaria, a spingere verso l'innovazione.
E' più di una scelta. Deve essere nella natura del Partito democratico, fare questo. Dobbiamo saperlo: senza crescita, gli obiettivi di una grande forza dell'equità e delle opportunità sono destinati a soccombere.
La battaglia da sostenere, diceva Olof Palme, "non è contro la ricchezza, è contro la povertà". Ricordiamole sempre, tutte e due le cose.
Superiamo allora gli odi, i rancori e le divisioni che impediscono di guardare con lucidità alla situazione economica. La ripresa economica non è né di destra né di sinistra: è un bene per tutto il Paese, e tutti abbiamo il dovere di fare ciò che è necessario per prolungarla, rafforzarla, estenderla ai settori e ai territori che ancora non l'hanno agganciata. Un duraturo e moderno sviluppo economico non si ottiene se ciascun soggetto, ciascuna impresa, ciascuna categoria, si rinchiude in sé stessa come una monade isolata dal contesto esterno. Non si fa sviluppo con l'egoismo. E nemmeno con l'egoismo nazionale.
Ogni nostalgia nazionalistica è del tutto anacronistica. In un'Europa debole e divisa, nessuno Stato nazionale, grande o piccolo che sia, è in grado di assicurare ai suoi cittadini prosperità, sicurezza, libertà, pace. E' solo l'Unione, che non cancella identità e culture nazionali, che può riuscire a far questo. Può riuscire solo un'Europa politica e democratica, che abbia più peso e più responsabilità, che segua il principio guida fissato all'inizio dell'avventura europea, quello della limitazione delle sovranità nazionali.
L'azione che il governo italiano sta portando avanti, il ruolo che lo stesso Presidente Napolitano svolge, sono la prova di quanto sia importante che i Paesi più convintamente europeisti, come il nostro, non lascino che l'Unione venga sospinta al largo dal vento dell'euroscetticismo, che in questo momento soffia forte. Che non rinuncino all'idea di far procedere speditamente l'Europa con il principio della doppia maggioranza e con lo strumento della cooperazione rafforzata. L'Europa ha bisogno di un'Italia stabile, forte, che cresce.
La nuova Italia nasce dalla riscrittura di almeno quattro grandi capitoli della nostra vicenda nazionale: ambiente, nuovo patto fra le generazioni, formazione e sicurezza.
1) I mutamenti climatici sono il primo banco di prova di questa vera e propria sfida. Dobbiamo convincerci tutti che l'aumento dell'effetto serra causato dal modo tradizionale di produrre e consumare energia non è un problema di astratta e accademica ecologia. I cambiamenti del clima sono ormai un drammatico dato di fatto: fermarli non è solo un dovere etico verso le future generazioni, è un interesse tremendamente concreto di noi contemporanei. In cima alle priorità della politica e dell'azione pubblica deve stare il futuro ambientale del nostro Paese e dell'intero pianeta. Affrontare i cambiamenti climatici. Realizzare gli obiettivi di Kyoto, e i successivi che sarà necessario darsi per ridurre le emissioni. Potenziare le azioni di risparmio energetico. Espandere l'uso delle fonti rinnovabili. Investire in dosi massicce sulle infrastrutture e sulle tecnologie per la mobilità ecosostenibile. Mettere l'apparato industriale e di ricerca italiano in linea con quelli dei paesi che prima di noi hanno investito sulle nuove tecnologie per l'ambiente.
La strada è quella indicata dai tre "20%" fissati come obiettivo al 2020 dall'Unione Europea: +20% di fonti rinnovabili, -20% di consumi energetici, -20% di emissioni di gas serra. Che vuol dire consumare molta meno energia per ogni euro di Pil prodotto, diffondere l'uso dell'energia solare ed eolica, promuovere il risparmio energetico nell'industria, nei trasporti, nei consumi civili.
L'Italia deve giocare da protagonista questa partita recuperando il terreno perduto, oppure non solo avremo mancato di dare il contributo che ci tocca a fermare i mutamenti climatici, ma ci ritroveremo più arretrati, meno dinamici e competitivi degli altri grandi paesi europei. Anche in termini di investimenti, la riconversione ambientale del Paese può diventare un traino per l'intera economia, come è stato in passato per il settore delle telecomunicazioni. Per farlo, si può utilizzare anche il sistema dei prezzi e del mercato, per favorire una grande allocazione di risorse a favore delle politiche ambientali. Si può pensare ad esempio a tasse di possesso automobilistico legate alla qualità delle emissioni, alla detassazione degli investimenti in ricerca e sviluppo ambientale, alla previsione di inasprimenti fiscali per tutti coloro che si sottraggono alle sfide dell'ecocompatibilità.
Quello a cui pensiamo è l'ambientalismo che proponendosi di diventare politica generale, informatrice di ogni scelta, rifiuta la logica del no a tutto. Non si può dire no all'alta velocità se poi l'alternativa è il traffico che inquina e la qualità della vita che peggiora perché per spostarsi ci vuole il doppio del tempo e il doppio dei consumi, il doppio dell'energia. Non si può dire di no al ciclo di smaltimento dei rifiuti moderno ed ecologicamente compatibile e lasciare che l'unica l'alternativa siano discariche a cielo aperto ed aria irrespirabile e nociva.
Quello a cui pensiamo è l'ambientalismo dei sì. Sì a utilizzare le immense possibilità della tecnologia per difendere la natura. L'ambientalismo è l'unico campo in cui l'obiettivo più radicale è conservare: conservare un equilibrio naturale. Ma è anche l'unico campo in cui l'unico modo per conservare è innovare: dal ciclo di smaltimento dei rifiuti, appunto, alla possibilità di muoversi usando infrastrutture su ferro; dall'uso dell'energia solare all'idrogeno. Sono le conquiste scientifiche e tecnologiche a consentire, oggi, di difendere l'aria, l'acqua, la Terra.
2) Un nuovo patto generazionale. Per fortuna - o meglio, per merito di quello stato sociale che i nostri padri hanno costruito per far fronte al rischio della malattia e della vecchiaia - l'età media si allunga. Nella sua recente Relazione il governatore Mario Draghi lo ha sottolineato con estrema chiarezza: nel 2005 vi erano 42 ultrasessantenni per ogni 100 cittadini. Ve ne saranno 53 nel 2020 e ben 83 nel 2040.
È una buona notizia. Non è una disgrazia che ci cade tra capo e collo. Una disgrazia la può diventare solo se noi saremo conservatori, pretendendo di fare fronte alle nuove insicurezze e ai nuovi problemi - almeno in parte connessi ai nostri stessi successi - con le vecchie ricette.
Pensate alla portata straordinaria dell'innovazione introdotta più di trent'anni fa nella previdenza pubblica dall'adozione del sistema cosiddetto a ripartizione, che sostituiva quello a capitalizzazione, nel quale ognuno versava i contributi "per sé": io lavoratore in attività pago oggi i miei contributi, che vengono usati per pagare le pensioni ai pensionati di oggi, in nome del patto, garantito dallo Stato, che prevede che i lavoratori attivi di domani pagheranno a loro volta la mia pensione... e così via, in un sempre rinnovato rapporto di solidarietà tra le generazioni.
È solo un esempio di metodo, che faccio per dimostrare come il dinamismo economico e sociale - ed un più elevato grado di giustizia sociale - possa essere sorretto da un patto tra generazioni che sappia ispirarsi ai valori eterni di solidarietà ed eguaglianza, ma anche modificare profondamente gli strumenti e le politiche per attuarli.
È su quest'ultimo terreno che abbiamo accumulato un ritardo. Perché non siamo stati sempre fedeli interpreti di quel principio di distinzione tra destra e sinistra che enunciò tanti anni fa il più giovane vecchio della sinistra italiana, Vittorio Foa, quando rispose: destra e sinistra? La prima, è figlia legittima degli interessi egoistici dell'oggi. La seconda, è figlia legittima degli interessi di quelli che non sono ancora nati.
Ecco. Non si può dire meglio. Ma dobbiamo poi essere conseguenti, anche - mi si passi la pedanteria - nell'uso del nostro tempo: da molti anni dedichiamo almeno un'ora al giorno del nostro tempo a discutere se si deve andare in pensione a 57, a 58 o a 60 anni, ma solo qualche secondo a progettare una risposta al fatto che continua ad aumentare il numero dei bambini che vivono in famiglie al di sotto della linea di povertà relativa; lo stesso esiguo tempo che dedichiamo a cercare soluzioni per le famiglie che, dovendo improvvisamente fare fronte alla cura di un anziano non autosufficiente, vedono la qualità della loro vita e il livello del loro reddito precipitare verso il basso, spesso in modo insostenibile.
Ecco quale Partito democratico io vorrei: un partito che lavori al buon esito del confronto sull'ammorbidimento dello "scalone", certo, ma concentri la gran parte dei suoi sforzi di elaborazione e di iniziativa sugli odierni fattori fondamentali di disagio e di disuguaglianza, proprio a partire dalle principali vittime del mancato adeguamento dello Stato Sociale alla nuova realtà della società e dell'economia: bambini poveri nei primi anni di vita e persone molto anziane non autosufficienti.
Il Partito democratico che vorrei deve darsi, a questo proposito, obiettivi anche quantitativamente verificabili, in un orizzonte di medio-lungo periodo. Noi sappiamo che questa mattina, in Italia, nello stesso ambito territoriale, sono nati due bambini: uno è figlio di genitori entrambi laureati, l'altro è figlio di genitori con diploma di scuola media inferiore. Il primo ha sette volte le probabilità del secondo di laurearsi: un abisso di dispari opportunità, una immobilità sociale che è causa non ultima dello scarso dinamismo economico.
L'insieme degli obiettivi per cui nasce il Partito democratico potrebbe dunque riassumersi in uno solo: noi vogliamo che, entro dieci anni, questo divario di opportunità - di vita, di successo e di felicità - si riduca del 30%, facendo ripartire quella mobilità sociale che, forte dai primi anni '60 fino alla metà degli anni '70, ha progressivamente frenato, fino ad arrestarsi del tutto.
La nostra società deve muoversi. Oggi, in una società immobile, a pagare il prezzo più alto sono i nostri ragazzi, che prima dei venticinque-trent'anni non entrano nel mondo del lavoro, e che non possono più contare su quella sequenza certa - studio, lavoro, pensione - che abbiamo conosciuto noi. E' come se oggi la vita dei giovani italiani fosse scandita da un orologio sociale ormai sfasato, messo a punto per un tempo che non c'è più.
Perché mai oggi un ragazzo non deve poter avere le garanzie, le tutele sociali e le opportunità che esistono per i suoi coetanei inglesi? Perché non può contare su un efficace sistema di ammortizzatori sociali - quello verso il quale il governo si sta incamminando - di fronte al rischio di perdere il lavoro, di doverlo cambiare o anche solo alla voglia di farlo? Perché in questi casi non può fare affidamento su indennità di disoccupazione e su opportunità di formazione utilizzabili lungo l'intero arco della vita? E perché se vuole metter su famiglia e ha il problema della casa non deve poter contare su un vasto insieme di interventi che vanno dal rilancio dell'edilizia popolare, alla sperimentazione di un nuovo housing sociale, alla messa in campo di strumenti finanziari che sblocchino il mercato degli affitti o di interventi che rendano disponibili con meccanismi di mercato le tantissime abitazioni oggi vuote?
Mi ripeto, so di farlo: la lotta alla precarietà è la grande frontiera che il Partito democratico ha davanti a sé. Non si vince questa lotta senza riscrivere un patto generazionale tra gli italiani. Senza spostare le ingenti risorse oggi impegnate per far fronte agli squilibri del sistema pensionistico verso i giovani e la loro inclusione.
Il sindacato, che nel corso della nostra storia ha più di una volta saputo difendere i diritti e gli interessi dei lavoratori assumendosi con coraggio responsabilità generali, sta dimostrando, deve dimostrare, di poter essere protagonista della scrittura di questo nuovo patto. Il Governo, che ha saputo praticare nuovamente quel metodo della concertazione che nel recente passato ha permesso all'Italia di raggiungere traguardi che a prima vista sembravano impossibili, ha iniziato a scriverne pagine importanti. Come quella che finalmente, in queste ore, sta portando ad un aumento delle pensioni più basse.
Altri passi dovranno seguire: azioni per l'invecchiamento attivo, perché gli anziani esprimono tante energie non solo per le loro famiglie, ma anche per la collettività; flessibilità di uscita e part-time in uscita, perché deve essere garantita ai lavoratori una vera libertà di scelta; maggiore sicurezza sul lavoro, perché su questo ogni giorno c'è un terribile bollettino che nega la civiltà del nostro Paese.
C'è poi un capitolo, del patto fra le generazioni, che dobbiamo avere il coraggio di non dimenticare. A carico di noi tutti, ormai da vent'anni, pesa un ingente debito pubblico, conseguenza dei conflitti sociali degli anni '70 e dell'irresponsabilità degli anni '80. Anche questo, rischiamo di trasferire alle generazioni più giovani e ai nostri figli.
Con l'ingresso nell'euro abbiamo fatto il primo grande passo per permettere al Paese di andare oltre, di proiettarsi verso il futuro. Ma dobbiamo oggi progettare il passo ulteriore. Come spiegheremmo, in caso contrario, una simile inadempienza ai nostri figli?
Una politica finanziaria rigorosa, quindi, non è figlia dell'ideologia, ma della necessità. La necessità di generare risorse per abbattere gradualmente il debito pubblico.
Il cammino del risanamento delle pubbliche finanze è ricominciato, grazie agli sforzi del Governo Prodi. Il deficit pubblico, che aveva raggiunto il 4,4% del Pil nel 2005 scenderà al 2,3% nel 2007. Il positivo ciclo economico ha aiutato l'azione del Governo, e dobbiamo fare ogni sforzo per far funzionare ancora per alcuni anni il circolo virtuoso fra crescita e risanamento. Ogni frutto aggiuntivo che il meccanismo potrà generare dovrà poi equamente essere utilizzato per la riduzione della pressione fiscale e per il sostegno alle nuove politiche del patto intergenerazionale.
La pressione fiscale. So che l'artigiano, il commerciante, il piccolo imprenditore quando è leale col fisco - e lo sono i più - paga molto, troppo. So che trova insopportabili i costi che deve affrontare per rispondere ai mille adempimenti burocratici che sono la premessa del pagamento delle tasse. So che, ad esasperarlo, è la distanza tra ciò che paga e ciò che riceve in cambio, in termini di infrastrutture, di efficienza della Pubblica Amministrazione, di buon funzionamento del servizio giustizia e sicurezza. E so infine che questo imprenditore si trova spesso di fronte ad un'Amministrazione Finanziaria che chiede a lui puntualità e precisione per ogni adempimento, ma è tutto meno che puntuale e precisa quando deve ridare al contribuente quei crediti che - specie nel caso dell'Iva - si fanno invece attendere per anni.
Non è con gli odi di classe che si sconfigge l'evasione. E', al contrario, attraverso il convincimento e l'adesione ad un comune progetto per la società. E' attraverso la semplificazione del sistema tributario e dei suoi adempimenti. E' con la trasformazione dell'amministrazione fiscale in soggetto che offre un servizio ai cittadini e alle imprese utilizzando condizioni il più possibile amichevoli e poco invadenti.
Da questa consapevolezza, faccio derivare un impegno preciso: io penso ad un Partito democratico che in tema di lotta all'evasione fiscale bandisca dalla sua cultura politica ogni pregiudizio classista, considerando altrettanto esecrabili quell'imprenditore che evade, quel pubblico dipendente che percepisce lo stipendio e non fa quello che dovrebbe e chi offre lavoro in nero.
E poi, penso ad un Partito democratico che lavori duramente alla riqualificazione della spesa pubblica: ogni anno, ci si scatena in una lotta durissima per limare ai margini i capitoli di spesa, in più o in meno, senza mai gettare lo sguardo sulla parte più consistente della spesa, quella che si ripete ogni anno, senza che ci si chieda se serve davvero a qualcosa. Le pubbliche amministrazioni devono invece giustificare l'utilità di tutte le somme che richiedono, non solo di quelle aggiuntive: giustificare fin dal primo euro ogni richiesta di stanziamento, valutare fino all'ultimo euro come sono stati utilizzati i soldi dei contribuenti.
Qui c'è il nodo cruciale delle infrastrutture: hai un bell'innalzare la produttività del lavoro in azienda, hai un bel curare l'innovazione costante del prodotto e del processo, quando poi il tuo competitore straniero ti batte perché la sua merce viaggia verso i mercati ad una velocità tripla, o quadrupla, rispetto alla tua. O quando il tuo competitore tedesco, per ricavare quel che si può dal fallimento di un suo creditore, in sede giudiziaria, deve aspettare meno della metà del tempo che devi aspettare tu, qui in Italia.
Non è solo questione di soldi. Per il servizio giustizia, in rapporto al Pil, spendiamo come gli altri partners europei. Ma otteniamo tanto di meno.
E per le infrastrutture materiali, almeno al Nord, i soldi si potrebbero trovare sul mercato finanziario. È questione di riforme non fatte. Nella Legge Finanziaria per il 2007, ad esempio, c'è un primo segnale, a proposito di infrastrutture: l'intesa Governo centrale-Regione Lombardia, che attribuisce il potere di decidere per le concessioni stradali e autostradali a una società creata dalla Regione e dall'Anas. Un primo passo verso un vero federalismo in campo infrastrutturale. Un'esperienza che può essere estesa ad altre Regioni, così creando le condizioni per responsabilizzare cittadini e istituzioni, aggredire i diritti di veto, chiamare i capitali privati a concorrere a migliorare la dotazione infrastrutturale del Paese, con uno schema che preveda una quota di risorse pubbliche superiore per il Mezzogiorno.
Tutto bene, si dirà. Ma la pressione fiscale complessiva, secondo il Partito democratico, deve diminuire o no?
Se la domanda venisse posta solo da quelli che hanno promesso di "abolire l'Irap" e di ridurre la pressione fiscale, che hanno governato per cinque anni e hanno lasciato l'Irap intatta e la pressione fiscale (somma di tutti i contributi più tutti i tributi, in rapporto al Pil) di quasi un punto più alta di quella del 2001, non varrebbe la pena di rispondere. Ma questo non ci esime dal dire con chiarezza che per troppi anni la sinistra si è accomodata nella logica del "tassa e spendi". È nostro interesse e dovere, dunque, dar conto della svolta che dobbiamo operare.
Parliamoci chiaro: con un volume globale del debito pubblico quasi doppio rispetto a quello dei nostri principali partners europei, il livello della pressione fiscale non potrà essere drasticamente ridotto, nei prossimi anni. Ripeto: hanno dovuto prenderne atto, nei cinque anni trascorsi, anche quanti avevano irresponsabilmente proposto di diminuirlo di un punto di Pil all'anno per cinque anni. È invece assolutamente realistico prevedere una consistente riduzione della pressione complessiva nei prossimi tre anni: la rende possibile proprio quella stabilizzazione della finanza pubblica che è uno dei migliori risultati di questo primo anno di governo.
Così "aggiustato" nell'immediato futuro il livello complessivo della pressione fiscale, dovremo finalmente aggredire due nodi di ben altra difficoltà: l'evasione fiscale da un lato e l'equilibrio tra le diverse forme di imposizione dall'altro.
L'evasione è il cancro che corrode il rapporto di fiducia tra cittadino e Stato: se il livello della pressione fiscale italiana è ormai paragonabile a quello dei grandi paesi dell'Europa continentale, il più elevato livello di evasione ci dice che - sui contribuenti o nesti e leali - siamo giunti a un carico elevatissimo, da record europeo. Il rischio è che si precipiti in un circolo vizioso: le innovazioni legislative funzionali alla lotta all'evasione mettono nuovi compiti burocratici e nuovi costi a carico dei contribuenti che già pagano; altre innovazioni legislative innalzano le aliquote o allargano le basi imponibili, mentre quelli che evadono tutto o quasi restano al riparo dalle une e dalle altre.
Mi chiedo se non si debba lavorare a un profondo ripensamento di tutto questo, per entrare in una spirale virtuosa: man mano che lo Stato abbassa le aliquote e semplifica gli adempimenti, i contribuenti accrescono il livello di fedeltà delle loro dichiarazioni, e la loro recuperata fiducia nello Stato crea quel clima di condanna sociale dell'evasione che oggi manca.
Non sto proponendo, vorrei che fosse chiaro, la flat tax, tanto cara alla destra in Europa e nel mondo. Sto parlando di un'iniziativa che - nel contesto di un sistema fiscale che obbedisce al principio costituzionale della progressività e, anzi, al fine di meglio applicarlo - rinnovi il patto fiscale che è alla base di una ben organizzata comunità.
Pagare meno, pagare tutti: in questi lunghi anni che ci stanno alle spalle, questo indirizzo è stato interpretato nel senso che solo quando tutti avranno preso a pagare tutto, secondo le aliquote elevate oggi in vigore, solo allora si potrà far pagare meno, cioè ridurre le aliquote, ottenendo un gettito pari. Mi pare di poter dire che i risultati delle diverse stagioni politiche non depongono a favore di questa strategia. Proviamo allora ad adottarne una che agisca contemporaneamente sui due tasti, attraverso un approccio graduale.
Pensiamo ad esempio alla tassazione degli affitti. Oggi, l'evasione dilaga: chi percepisce l'affitto, dovrebbe pagarci sopra le tasse con l'aliquota marginale dell'Irpef. Chi lo paga "in bianco", non detrae nulla. Proviamo a fare il contrario: aliquota del 20% sull'affitto percepito, uguale per tutti (l'aliquota più bassa dell'Irpef è il 23%) e significativa detrazione per chi lo paga, uscendo dal "nero". Nei primi anni la caduta del gettito sarebbe troppo pesante? Cominciamo allora dalle case prese in affitto dalle giovani coppie e dagli studenti universitari e poi, se funziona, estendiamo la riforma a tutti gli affitti.
Quanto alle forme dell'imposizione fiscale, non c'è dubbio che oggi esista un grave squilibrio tra pressione sulla rendita da un lato e pressione sul lavoro e sull'impresa dall'altro. Anche in questo caso, vorrei bandire ogni equivoco: un ben funzionante mercato finanziario è una delle condizioni dello sviluppo. E il mercato finanziario funziona bene se è aperto. E, per aprirsi, non può sopportare forme di prelievo fiscale sulle rendite incompatibili con quelle prevalenti nell'area economico-finanziaria e monetaria di riferimento.
Ma proprio questo è il punto: il prelievo fiscale sulla rendita è in Italia decisamente più basso di quello medio in Europa, così da provocare evidenti distorsioni. Cito quella che mi pare la più clamorosa: un manager, sulle plusvalenze delle sue stock options, paga con un'aliquota del 12,5%; un operaio che versa il suo salario in banca paga sugli interessi un'aliquota del 27%. Dobbiamo dunque operare per l'armonizzazione delle aliquote di prelievo, prendendo tutte le precauzioni, ma senza timidezze. Fra l'altro, i mercati finanziari, a fine 2006, già hanno scontato gli effetti dell'armonizzazione, in forza degli annunci fatti dall'Unione in campagna elettorale.
3) Se la nostra è la società della conoscenza, l'educazione e la formazione sono al centro di tutto. Non possiamo più trovarci costantemente agli ultimi posti tra i paesi a cosiddetto sviluppo avanzato, non è più accettabile che i diplomati tra i 25 e i 64 anni, ossia nella fascia di età dove si concentra il tasso di occupazione, siano solo il 37,5%, otto punti in meno della media Ocse. Non è possibile che i laureati in Italia siano appena il 12% della popolazione, poco più di uno ogni dieci italiani, la metà della media Ocse.
Abbiamo bisogno di un piano nazionale per la scuola e l'Università. E' una priorità assoluta. Dobbiamo dare credito alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi. Renderli sicuri che alla fine del loro percorso formativo, sia nelle scuole secondarie che nelle Università, potranno avere accesso ad una prima esperienza di lavoro, sotto forma di stage, di master, di apprendistato tradizionale o di alto apprendistato. Dobbiamo offrire a tutte e tutti un'opportunità, con meccanismi di selezione trasparenti, che premino i più meritevoli. E valorizzare, soprattutto, il sistema dell'istruzione tecnica e professionale, per il quale il sistema delle imprese italiane esprime una domanda di circa 200 mila giovani qualificati all'anno, che spesso, e soprattutto al Nord, c'è difficoltà a reperire. Dobbiamo attrarre studenti e docenti nelle nostre università: per questo abbiamo bisogno di un sistema di campus universitari, come i tre che abbiamo in cantiere a Roma, che permettano di calmierare il mercato degli affitti e di offrire ospitalità a costi accessibili.
E poi anche nel nostro sistema formativo c'è una "questione meridionale". Vorrei citare ancora il governatore Draghi, la sua Relazione: "La bassa collocazione del nostro sistema scolastico nelle graduatorie internazionali ha una caratterizzazione territoriale che merita attenzione. Al Sud i divari nei livelli di apprendimento sono significativi già a partire dalla scuola primaria, tendono ad ampliarsi nei gradi successivi: un quindicenne su cinque nel Mezzogiorno versa in una condizione di 'povertà di conoscenzà anticamera della povertà economica. Il ritardo si amplia se si tiene conto dei più elevati tassi di abbandono scolastico. L'esistenza di un divario territoriale così marcato mostra che il problema non sta solo nelle regole, ma anche nella loro applicazione concreta". E conclude: "Per cambiare la scuola italiana si deve muovere dalla constatazione dei circoli viziosi che la penalizzano, disincentivano gli insegnanti, tradiscono le responsabilità della scuola pubblica".
4) La sicurezza. Cominciamo con l'essere chiari: nessuno scrolli le spalle o definisca razzista un padre che si preoccupa di una figlia in un quartiere che non riconosce più. La sicurezza è un diritto fondamentale che non ha colore politico, che non è né di destra né di sinistra. Chi governa ha il dovere di fare di tutto per garantirla.
Avendo ben presente il presupposto: integrazione e legalità, multiculturalità e sicurezza, vivono insieme. Insieme stanno. Insieme cadono. Chi viene da lontano per scappare dalla fame e dalla guerra non può che essere almeno accolto da un Occidente egoista e avido. Ma per chi ruba ai cittadini quel bene prezioso che è la serenità c'è solo una risposta, ed è la severità e la fermezza con cui pretendere che rispetti la legge e che paghi il giusto prezzo quando questo non accade, quale che sia la sua nazionalità. Chi viene qui per fare male agli altri o per sfruttare donne o bambini deve essere assicurato alla giustizia, senza se e senza ma.
Dalla mia esperienza di questi anni ho imparato che la visione nazionale di un problema fondamentale come questo diventa concreta quando viene calata nella realtà del territorio. Quando la cooperazione forte tra governo e amministratori è una scelta non episodica ma strategica. Perché noi continuiamo a basarci su un modello che è sempre lo stesso da quarant'anni, mentre nel frattempo l'Italia è cambiata, sono cambiati gli insediamenti urbani e il territorio da governare è diventato più ampio ed eterogeneo, sono cambiati gli stili di vita delle persone.
Le politiche sociali, i processi di inclusione, sono importanti, lo sappiamo bene. Ma insieme, e siamo noi a poter coniugare le due esigenze, dobbiamo pensare ad un modo nuovo di assicurare e aumentare la presenza dello Stato sul territorio. C'è un problema di efficacia e c'è un problema di rassicurazione, perché ci sono i reati che tolgono la sicurezza reale e c'è la percezione dell'insicurezza. Anche questa merita risposte.
Più gente per strada, di questo c'è bisogno. Pensiamo solo a quale salto nei livelli di tutela della sicurezza delle persone e delle imprese si otterrebbe se tutto il personale che veste una divisa delle forze dell'ordine venisse liberato, tramite un processo di mobilità, dalle attività amministrative per essere impiegato a presidio del territorio, laddove i cittadini o nesti - e anche i delinquenti - possano "sentirne" la presenza fisica.
Insomma, una nuova Italia richiede un cambiamento profondo, in molti casi radicale.
Il Partito democratico, la sua stessa nascita, può contribuire ad accelerare, a introdurre un forte elemento di coesione politica e programmatica.
Il Partito Democratico, ognuno lo intende, serve anche a "fissare" i riformisti al principio del bipolarismo e della alternanza. Quel principio che in varie forme, e con vari modelli elettorali, vive in ogni paese europeo. Bipolarismo, in alcuni casi bipartitismo, appaiono il modo in cui, per virtù politiche e/o istituzionali, si succedono al governo forze diverse, in un clima di stabilità e di rappresentanza non frammentata.
Le elezioni legislative francesi sono state un modello di funzionamento istituzionale perfetto: i cittadini hanno scelto con il loro voto e hanno selezionato, in due turni, un Parlamento compatto in un contesto democratico equilibrato. E così per le presidenziali: chi ha perduto ha riconosciuto pochi minuti dopo le prime proiezioni il successo del vincitore. Il Presidente eletto ha invitato all'Eliseo il contendente per discutere i lineamenti della posizione che la Francia avrebbe portato al Consiglio europeo. Tra cinque anni i cittadini misureranno se gli impegni presi dalla maggioranza e dall'opposizione sono stati rispettati.
Vediamo, nel caso francese, due aspetti. Uno è il funzionamento della legge elettorale e dei meccanismi istituzionali. L'altro è il senso di responsabilità nazionale delle forze politiche. Da noi tutto è frammentazione. Abbiamo, in questa legislatura, ben quattordici gruppi parlamentari. I partiti di governo sono dieci, più o meno altrettante sono le formazioni politiche che stanno all'opposizione. Ci vuole davvero poco per vedere quanto la legge elettorale irresponsabilmente approvata nella scorsa legislatura abbia favorito l'ingovernabilità del Paese.
Non è possibile, voglio dirlo con chiarezza, che in un sistema democratico moderno un senatore possa avere nelle mani il destino di una legislatura. Non è possibile che il suo voto possa contare più del voto di milioni di persone chiamate a scegliere chi governa.
La democrazia invece è proprio questo: "decisione". E' ascolto, è condivisione. Ma alla fine, è decisione.
Un governo che abbia i poteri per essere tale, un Parlamento che controlli severamente e indirizzi l'azione dell'esecutivo, ma che non pretenda di essere, esso stesso, governo assembleare.
Nei Comuni e nelle Regioni c'è stata, in questi anni, stabilità. E c'è stato cambiamento. I Sindaci rispondono ai cittadini e non, come era un tempo, alle correnti dei partiti. E i poteri locali sono divenuti un motore prepotente dello sviluppo italiano e dell'incremento del Pil. Con una costante crescita, specie per i Comuni, nel gradimento dei cittadini verso le istituzioni.
La legge elettorale deve essere cambiata. Si trovi un meccanismo, non bisogna guardare lontano, che garantisca quattro obiettivi: contrasto della frammentazione, stabilità di legislatura, rappresentatività del pluralismo, scelta del governo da parte dei cittadini.
La legge è urgente e necessaria. E' una condizione della vita democratica del Paese. Solo chi non è responsabile può pensare di trascinare l'Italia verso altre elezioni, che con questo sistema produrrebbero solo altra instabilità e altro caos. Cambiare, in un confronto parlamentare serio e aperto. E se il Parlamento non riesce a farlo sarà allora il referendum a spingere, sulla base dell'abrogazione, verso la definizione di un nuovo sistema.
L'Italia ha bisogno di stabilità. Quella stabilità che è stata tanto più vicina, in quest'ultimo decennio, tanto più ci siamo incamminati lungo la strada del bipolarismo, iniziata con la riforma in senso maggioritario del vecchio sistema elettorale proporzionale. Quello, sarebbe bene ricordarlo sempre, delle crisi di governo pressoché continue e degli esecutivi non scelti dai cittadini con il loro voto, ma formati dopo lunghe e a volte non troppo chiare trattative che duravano settimane, se non mesi.
La possibilità della scelta: questo è il principio da affermare e da far vivere. Questa è la chiave da consegnare all'Italia.
Agli italiani, che devono poter scegliere in modo lineare, pieno e consapevole chi dovrà governarli per cinque anni. A chi governa, che deve avere gli strumenti necessari per guidare il Paese, per attuare il programma con il quale è stato eletto, per decidere.
Questa è la forza della democrazia, di una "democrazia che decide". Delega e responsabilità. Equilibrio tra potere di decisione e potere di controllo. Con lo scettro affidato a coloro ai quali spetta in democrazia: i cittadini, il popolo che vota e che dopo cinque anni approverà o boccerà l'operato di chi li ha governati.
Ma la crisi del nostro sistema democratico, più volte richiamata dal Presidente Napolitano con l'amore per le istituzioni e il Paese che tutti gli riconoscono, non è solo legata alla legge elettorale.
E' il sistema istituzionale, che in molti aspetti, deve cambiare. E' ormai matura, sulla spinta della sollecitazione dell'opinione pubblica e della consapevolezza degli stessi gruppi parlamentari, una profonda riforma della politica.
Perché se i parlamentari eletti direttamente sono 577 in Francia, 646 in Gran Bretagna, 614 in Germania e 435 negli Stati Uniti, in Italia ci devono essere mille tra deputati e senatori? Perché una legge deve passare, per essere approvata, una o due volte in due rami del Parlamento? Perché il governo non può vedere approvate o respinte le sue proposte di legge in un tempo certo? Perché il Presidente del Consiglio non ha il diritto di proporre lui al Presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri? Perché non ridurre, a tutti i livelli, la numerosità di tutti gli organismi elettivi? Perché, una volta sviluppato tutto il necessario confronto nelle Commissioni, non approvare la legge finanziaria senza lo stillicidio degli emendamenti in Aula?
Il Parlamento sta andando in questa direzione. Ma bisogna fare presto. La risposta alle domande retoriche che ho posto è una sola, purtroppo. Perché molti, in questo Paese, vogliono una democrazia debole, poteri istituzionali fragili, una politica al tempo stesso flebile e invadente.
Non possono passare anni per una decisione. Non possono essere decine di organismi a dare pareri, mettere veti, condizionare scelte. Non ci possono essere decine di istituzioni da cui un cittadino, un imprenditore o un amministratore deve passare prima di vedere realizzato un progetto.
L'Italia è diventata il Paese in cui tutti, a tutti i livelli, hanno il diritto di mettere veti e nessuno ha il diritto di decidere.
Più è lunga e sfilacciata la filiera delle decisioni, più si fa strada il fenomeno, che temo riemergere, della corruzione. Uno Stato semplice, non barocco, è uno Stato moderno. Quello che la storia e la pratica ci consegnano è invece una eredità confusa e vecchia. Se di fronte ad ogni problema urgente gli amministratori e i cittadini sono costretti a chiedere poteri straordinari, è perché evidentemente quelli ordinari non funzionano.
E torniamo al tema: senza poteri democratici funzionanti, è tutto il sistema che si allenta, si smaglia, apre la strada a poteri illegittimi. Un Paese può perdere la sua democrazia per "eccesso" di decisione, ma può anche perderla per "difetto" di decisione. Gli italiani vogliono che il governo che guida il Paese possa assumere su di sé decisioni e responsabilità, e che e ne risponda. E vogliono sceglierlo. Come in altre democrazie, che funzionano.
E' così, con un'alta capacità di risposta, che si combatterà l'antipolitica. Occorre qui distinguere: un cittadino che critica sprechi e irrazionalità, che chiede alla politica sobrietà e rigore, non coltiva l'antipolitica, dice qualcosa di giusto. Come qualcosa di giusto dice chi vuole siano sempre rispettati i paletti tra sfera della politica e autonomia della società. Chi invece indica qualunquisticamente la politica come il nemico, chi soffia demagogicamente sul fuoco dell'insoddisfazione, ha il dovere di dire cosa si dovrebbe sostituire alla politica e alle istituzioni.
E lasciatemi dire: fa sorridere amaramente che chi ha governato l'Italia per complessivi sei anni cavalchi l'antipolitica con toni populistici quasi fosse un passante qualsiasi, facendo finta di non esserci mai stato.
Io credo nella insostituibilità della politica come strumento di regolazione, come capacità di evitare che una società smarrisca il senso di sé e rifluisca in ogni possibile forma di particolarismo. Ma la politica, per far questo, deve sapere mostrare il suo volto migliore. Bisogna stare meno nei talk-show televisivi, non pensare di avere ogni giorno una cosa speciale da dire. Bisogna che le leadership politiche si misurino con la vita reale dei cittadini. Bisogna che il potere sia sobrio, che rinunci più che chiedere, che non si faccia corpo separato, lontano. Penso al senso dello Stato e all'impegno civile di uomini come Massimo D'Antona e come Marco Biagi, solo e senza scorta.
Penso che spetterà al Partito democratico presentare in Parlamento una organica legge per la riforma degli istituti della politica. Una legge per la politica. Per favorire il carattere necessariamente lieve e ambizioso che la politica moderna deve assumere.
Una politica che sappia condividere: la vita dei cittadini, la quotidianità di persone che iniziano la loro giornata senza leggere gli editoriali dei giornali né domandandosi a quale dei vecchi partiti italiani si sentono legati.
No, non fanno e non si chiedono questo, l'anziana che fatica a pagare l'ultima bolletta del mese con quello che resta della sua pensione, l'operaio che deve mettere insieme un lavoro che non lo soddisfa e il dovere di mandare avanti una famiglia, l'imprenditore che sbatte la testa contro la burocrazia o l'artigiano e il commerciante che ha il dovere di pagare le tasse ma ha anche il diritto di avere uno Stato che gli renda più semplice la vita e lo consideri non un peso ma una risorsa.
Una politica sincera, pragmatica, ancorata ai suoi valori, non ideologica. E che contribuisca a voltare pagina in Italia.
La politica è, e deve essere, contrapposizione aperta, netta e trasparente tra programmi e soluzioni diverse. Ma c'è un confine di sobrietà e di rispetto dei problemi reali delle persone che non può consentire di proseguire oltre su una strada sbagliata.
Sbagliato è che ogni nuovo governo si senta in diritto di smantellare sempre e comunque tutte le leggi varate dal governo precedente e in particolare le regole più importanti, quelle da cui dipende il funzionamento e lo sviluppo del Paese. Non è possibile che tutto ciò che è stato fatto da chi c'era prima di te, se era dello schieramento avverso, sia sempre sbagliato. E con questo voglio dire, per essere chiaro, che una cosa sono le leggi "ad personam", che vanno cancellate, e una cosa è ad esempio una legge come quella sul risparmio, che non è stata negativa.
Basta. Dobbiamo farla finita con lo scontro feroce e con i veleni, con le polemiche che diventano insulto. Il Paese di tutto questo è stanco, non ne può più. E da tempo non perde occasione per dirlo. Per dire che non vuole una politica avvolta dall'odio, dove l'altro è un nemico, dove i problemi reali finiscono in un angolo o vengono affrontati con soluzioni temporanee.
Voltiamo pagina. Gettiamoci alle spalle un modo di intendere i rapporti tra maggioranza e opposizione che non porta a nulla. A nulla, se non a far male all'Italia.
Voltiamo pagina. La politica può essere diversa. Non c'è niente, tranne la nostra volontà, che impedisca la costruzione di un modo di intendere i rapporti basato sulla civiltà, sul riconoscersi reciprocamente.
Mi è stato più volte dato atto di non aver mai partecipato a questa degenerazione del confronto. In ogni caso continuerò così, anche unilateralmente. Continuerò a pensare che non c'è un titolo di giornale che valga più del rispetto di un avversario. Non una battuta volgare che possa essere accettata come normale da un paese non volgare.
Voltiamo pagina. Facciamo in modo, per la prima volta da quindici anni, che non si formino più schieramenti "contro" qualcuno, ma schieramenti "per" affrontare le grandi sfide dell'Italia moderna.
Che la nostra diventi la società del rispetto, dell'apertura, del dialogo. Si può essere in disaccordo senza essere nemici. Si può far vivere una politica in cui si ammetta serenamente la possibilità che l'altra parte possa anche aver ragione. Una politica in cui ci si scontri duramente su programmi e valori, ma capace di convivenza e rispetto istituzionale. Nessuno occupi, mai più, il Parlamento repubblicano sventolando giornali e striscioni.
Sei anni come Sindaco di Roma mi hanno convinto, e credo di poter dire abbiano convinto soprattutto i cittadini romani, al di là delle naturali e legittime convinzioni di ognuno, che è possibile confrontarsi in modo civile e trasparente senza che nulla venga tolto alle rispettive idee. Avendo come unico ed esclusivo interesse il bene della propria comunità, la qualità della vita delle persone.
E' con questo stesso spirito che continuerò a tenere fede all'impegno assunto con i miei concittadini. Con la stessa passione che mi ha fatto stare ogni giorno in mezzo a loro, tra i loro problemi e le loro speranze: un'esperienza unica di ascolto e di condivisione, che proseguirà e che mi accompagnerà sempre in ogni momento, in ogni scelta, in ogni decisione. Al patto che ho stretto con Roma non posso e non voglio venir meno, e d'altro canto l'amore per la mia città, per le mie radici, per il lavoro che sto portando avanti, mi impedisce di fare diversamente.
Il Partito democratico che immagino e che spero si rivolge a tutti gli italiani.
L'Italia deve recuperare in pieno, e il Partito democratico anche a questo deve servire, il senso di un'appartenenza comune, il senso profondo di essere una nazione.
Una nazione unita. Un solo popolo. Una sola comunità.
Non ci sono due Italie, c'è un'Italia sola.
Non c'è un "noi" e non ci sono "gli altri", quando si parla degli italiani.
E non ci può essere "noi" e "gli altri" nemmeno quando si tratta del rapporto tra fede e laicità. La cosa peggiore che il Paese potrebbe avere in sorte è la contrapposizione esasperata tra integralismo religioso e laicismo esasperato. E' un paradosso insostenibile: il bipolarismo politico e istituzionale deve ancora diventare compiuto mentre a dominare la scena ci sarebbe un dannoso e paralizzante "bipolarismo etico".
No, non può essere. La risposta è nella sintesi. Nel punto di equilibrio, che è dovere della politica e delle istituzioni cercare, tra il valore pubblico delle scelte religiose delle persone e la laicità dello Stato. A nessun cittadino che abbia fede, quale essa sia, si chiederà di lasciare fuori dalla porta della politica il proprio percorso spirituale e i propri valori. Anche i non credenti devono rispettare e tener di conto le opinioni di chi, mosso dalla fede, può portare alimento alla vita pubblica. Al tempo stesso, ognuno è tenuto a rispettare quel che la nostra Costituzione afferma e salvaguarda: la laicità dello Stato Repubblicano.
Ed è la democrazia stessa a imporre, a chi è legittimamente mosso da considerazioni religiose, di tradurre le sue preoccupazioni in valori universali e in proposte concrete ispirate alla ragionevolezza, e non specifici della sua religione. In una democrazia pluralista non c'è altra scelta.
La politica, come è stato giustamente detto, dipende dalla nostra capacità di persuaderci vicendevolmente della validità di obiettivi comuni sulla base di una realtà comune. E' qualcosa che vale in particolare per temi come questi, come la tutela della famiglia, come la difesa dei diritti civili di ognuno. A guidarci c'è una Costituzione che indica principi comuni a tutti noi. A guidarci deve essere quel senso della misura, e dell'amore per la coesione della propria comunità, che deve spingere a cercare sempre un punto di incontro virtuoso che non mortifichi i convincimenti degli uni o degli altri.
E' questo spirito di ricerca e di confronto che sta alla base della proposta di legge sui Dico. Se è certamente vero ciò che Savino Pezzotta ha detto, circa il valore costituzionale della famiglia fondata sul matrimonio, è altrettanto vero che, come hanno fatto tutte le altre grandi democrazie, anche in Italia è giusto riconoscere i diritti delle persone che si amano e convivono.
Il Partito democratico deve avere in sé un'ambizione, al tempo stesso, non autosufficiente ma maggioritaria. Deve sapere che il suo messaggio di innovazione e di comunità può motivare il suo campo e conquistare consensi anche diversi. L'elettorato è razionale, mobile, orientato a scegliere la migliore proposta programmatica e la migliore visione.
Fiducia in questa vocazione maggioritaria significa oggi lavorare per rafforzare l'attuale maggioranza. Io rispetto e stimo i nostri partner della coalizione. I sondaggi di queste ore dicono che insieme ad una forte crescita del consenso al Partito democratico si manifesta il ritorno dell'Unione in testa nelle preferenze degli italiani. Così deve essere. Un Partito democratico più forte può sostenere il governo e la sua azione, e insieme fare più forte l'Unione. E può chiedere a tutte le forze di governo, cominciando da se stesso, più coesione, più spirito di squadra, più ascolto reciproco.
Il partito che immagino è un luogo aperto. Aperto, in primo luogo, ai giovani. Il gruppo dirigente dovrà essere composto, a tutti i livelli, dai nuovi ragazzi che nei partiti come nella società hanno voglia di spendersi per il loro futuro e per quello del Paese.
Aperto ai cittadini, a quei movimenti che nel corso di questi anni hanno interpretato meglio la domanda di cambiamento, di rinnovamento della politica, che veniva dalla società italiana.
Aperto a livello regionale, dove insieme a coloro che vengono da storie e da appartenenze di partito dovranno partecipare, contare e decidere, associa
Torino, 27 Giugno 2007
"Fare un'Italia nuova. E' questa la ragione, la missione, il senso del Partito democratico.
Riunire l'Italia, farla sentire di nuovo una grande nazione, cosciente e orgogliosa di sé.
Unire gli italiani, unire ciò che oggi viene contrapposto: Nord e Sud, giovani e anziani, operai e lavoratori autonomi.
Ridare speranza ai nuovi italiani, ai ragazzi di questo Paese convinti, per la prima volta dal dopoguerra, che il futuro faccia paura, che il loro destino sia l'insicurezza sociale e personale.
Per questo nasce il Partito democratico. Che si chiamerà così. A indicare un'identità che si definisce con la più grande conquista del Novecento: la coscienza che le comunità umane possono esistere e convivere solo con la libertà individuale e collettiva, con la piena libertà delle idee e la libertà di intraprendere. Con la libertà intrecciata alla giustizia sociale e all'irrinunciabile tensione all'uguaglianza degli individui, che oggi vuol dire garanzia delle stesse opportunità per ognuno.
Il Partito democratico, il partito di chi crede che la crescita economica e l'equa ripartizione della ricchezza non siano obiettivi in conflitto, e che senza l'una non vi potrà essere l'altra.
Il Partito democratico, il partito dell'innovazione, del cambiamento realistico e radicale, della sfida ai conservatorismi, di destra e di sinistra, che paralizzano il nostro Paese.
Il Partito democratico, il partito che dovrà dare l'ultima spallata a quel muro che per troppo tempo ha resistito e che ha ostacolato la piena irruzione della soggettività femminile nella decisione politica e nella vita del Paese. La rivoluzione delle donne ha affermato in tutte le culture politiche il principio del riconoscimento della differenza di genere come elemento costitutivo di una democrazia moderna. E' questa esperienza che dovrà essere decisiva, fin dal momento della fondazione del nostro partito.
Il Partito democratico, un partito che nasce dalla confluenza di grandi storie politiche, culturali, umane. Che nasce avendo dentro di sé l'eredità di quelle formazioni che hanno restituito la libertà agli italiani, di quelle donne e di quegli uomini che hanno pagato con il carcere e con la propria vita il sogno di dare ad altri la libertà perduta. Quelle formazioni che hanno fatto crescere l'Italia e gli italiani, che hanno portato il nostro Paese a trasformarsi da una comunità sconfitta a una delle nazioni che siedono a pieno titolo al tavolo dei grandi della Terra: quanta strada è stata fatta, da quando Alcide De Gasperi, alla Conferenza di Pace di Parigi, si rivolgeva al mondo che lo ascoltava dicendo: "Tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me". Quelle formazioni che hanno combattuto il terrorismo e l'hanno sconfitto.
Ma il Partito Democratico non è la pura conclusione di un cammino. Se lo fosse, o se si raccontasse così, inchioderebbe se stesso al passato.
Invece, ciò di cui l'Italia ha bisogno è un partito del nuovo millennio. Una forza del cambiamento, libera da ideologismi, libera dall'obbligo di apparire, di volta in volta, moderata o estremista per legittimare o cancellare la propria storia. Un partito che non nasce dal nulla, e insieme un partito del tutto nuovo.
E' quello a cui ha pensato, a cui ha lavorato, per cui si è speso con coerenza e determinazione il fondatore dell'Ulivo, Romano Prodi.
Il Partito democratico, un partito aperto che si propone, perché vuole e ne ha bisogno, di affascinare quei milioni di italiani che credono nei valori dell'innovazione, del talento, del merito, delle pari opportunità. Quei milioni di italiani che nelle imprese, negli uffici e nelle fabbriche dove lavorano, nelle scuole dove insegnano, sentono di voler fare qualcosa per il loro Paese, per i loro figli. Quei milioni di italiani che si impegnano nel volontariato, che fanno vivere esperienze quotidiane e concrete di solidarietà. Quei milioni di italiani che trovano la politica chiusa, e che se provano ad avvicinarsi ad essa è più facile che si imbattano nella richiesta di aderire ad una corrente o ad un gruppo di potere, piuttosto che a un'idea, ad un progetto.Sono convinto che il 14 ottobre sarà un giorno importante per la democrazia italiana. Nasce, in forma nuova, un partito nuovo. Nasce consentendo a chiunque creda in questo progetto di iscriversi, naturalmente e direttamente, e di candidarsi. Associazioni e gruppi, comitati e movimenti, singole persone potranno, nello stesso momento, formare un nuovo partito e decidere gli organi dirigenti e il leader nazionale.
E' un fatto mai accaduto prima. E' stato sempre più facile che nuovi partiti nascessero da scissioni o da proiezioni personali di leader carismatici.
Nel Partito democratico ognuno sarà e dovrà essere, fin dal primo momento, alla stessa stregua dell'altro. Per questo abbiamo voluto il principio "una testa, un voto".
Ds e Margherita, e per primi Piero Fassino e Francesco Rutelli che hanno saputo guidarli all'appuntamento decisivo, insieme a Romano Prodi che non ha mai smesso di crederci e di lavorare per questo, hanno avuto l'enorme merito di cogliere quella che era davvero l'ultima occasione, hanno avuto il grande coraggio di accettare la sfida. Di mettere in gioco se stessi, con una generosità che non ha precedenti in una lunga storia politica abituata alle separazioni più che agli incontri, alla valutazione del tornaconto di parte più che degli interessi generali. Le forze politiche che hanno deciso con i loro congressi di andare oltre se stesse, hanno compiuto una scelta che resterà nella storia politica del Paese. Il mio pensiero, in questo momento, è rivolto al coraggio e alla passione politica di tanti italiani che in questi anni hanno tenuto vive le idee della sinistra e dei democratici.
Unire le culture e le forze riformiste del nostro Paese. Superare la parzialità e l'insufficienza di ognuna di esse, di ognuno di noi. Dar vita a una forza plurale attraverso non il semplice accostamento, ma una creazione nuova. Far nascere, finalmente, il Partito democratico, la grande forza riformista che l'Italia non ha mai avuto.
Il cammino iniziò nel 1995, per iniziativa di Romano Prodi. Cominciò facendo nascere, in tutta Italia, comitati di cittadini. Comitati che univano le forze politiche e la società civile. Così vincemmo elezioni che sembravano perdute e così governammo l'Italia assumendoci responsabilità alte e difficili. Così raggiungemmo l'obiettivo dell'Europa. E non posso, qui, non rendere omaggio a un grande artefice di quel cammino, ad un protagonista della vita del Paese e delle nostre istituzioni: Carlo Azeglio Ciampi.
In quegli anni assumemmo anche, con Massimo D'Alema, il compito di interpretare un ruolo attivo dell'Italia nei momenti più aspri delle violazioni dei diritti umani nei Balcani. Un'Italia che non voltava lo sguardo dall'altra parte. Un'Italia che accettava e sosteneva la lotta, riuscita, per sconfiggere la logica della superiorità etnica che stava riportando il cuore dell'Europa nel baratro delle fosse comuni. Per sostenere che la pace, dove non c'è, non può essere difesa, ma va ricostruita. Dalla comunità internazionale, lasciando da parte inerzie colpevoli e presunzioni di unilateralismo. Ponendosi agli antipodi di quella aberrazione concettuale che è la "guerra preventiva" e di quella follia che è stato l'intervento in Iraq.
Personalmente ho creduto alla prospettiva del Partito democratico anche quando pareva difficile, quando era considerata lontana e impossibile. Mi sembrava che con l'abbattimento del Muro, con la vittoria della libertà sulle dittature comuniste, potesse aprirsi un tempo nuovo. Un tempo di libertà, un tempo di ricerca fuori dai recinti ideologici, un tempo di curiosità intellettuale e di incontro con l'altro. Un tempo di ponti e non più di fili spinati.
Mi sembrava che si aprisse la possibilità di costruire un campo ampio e pluralista, capace di comprendere chi pensava che con la fine degli "ismi" non fosse finito il bisogno di giustizia sociale, di riscatto degli ultimi, di difesa dei diritti umani e civili. Il bisogno di una sinistra moderna e innovativa, per chi ad essa sentiva di appartenere e vedeva aprirsi opportunità inedite per rispondere, in modo nuovo, ai propri compiti di sempre.
Ora, dopo un percorso inevitabilmente travagliato, questo sogno si sta realizzando, e si sta facendo strada, credo non solo in Italia, l'idea che occorra far vivere un nuovo campo del pensiero democratico, delle idee di libertà, di giustizia sociale e di innovazione.
L'Europa è andata a destra, in questi anni, perché la sinistra è apparsa imprigionata, salvo eccezioni, in schemi che l'hanno fatta apparire vecchia e conservatrice, ideologica e chiusa. Ad una società in movimento, veloce, portatrice di domande e bisogni del tutto inediti, si è risposto con la logica dei "blocchi sociali" e della pura tutela di conquiste la cui difesa immobile finiva con il privare di diritti fondamentali altri pezzi di società.
Il Partito democratico dovrà saper corrispondere alle nuove domande. Al bisogno di libertà e di fluidità sociale di ceti sempre più mobili, coniugando queste esigenze con la ragione della sua stessa esistenza, e cioè la costruzione di una società in cui le capacità di ciascuno possano essere messe alla prova indipendentemente dalle condizioni di partenza. Di una società che "si prenda carico", che non sia cinica o egoista, che si ponga il problema che l'Istat ci ha appena detto essere intatto: la distanza tra chi sta molto bene e chi sta molto male, in Italia, non accenna a diminuire.
Una società dove la precarietà non sia la regola, dove non sia l'incertezza a segnare, a ferire, la vita delle persone.
E' la precarietà soprattutto dei giovani, dei nostri ragazzi, delle nostre ragazze. In un tempo fantastico della vita viene chiesto loro solo di "aspettare". Aspettare di avere un lavoro certo, un mutuo per la casa e, con questi, la possibilità di mettere su famiglia e avere dei figli. La vita non può essere saltuaria. La vita non può essere part-time. Un imprenditore può assumere così, all'inizio, ma poi spetta alla comunità rendere certo l'incerto, per il ragazzo e per l'impresa.
E' la lotta alla precarietà, la grande frontiera che il Partito democratico ha davanti a sé.
Io qui oggi parlo non da uomo di partito e neanche da uomo di parte. Parlo da italiano.
Da persona che ama il suo Paese e pensa che il destino dell'Italia venga davvero prima di ogni altra ragione o considerazione particolare.
Guardo il mio Paese e se vedo segni di profondi cambiamenti, vedo anche indizi di un declino possibile: la precarietà, appunto. E poi l'invecchiamento della popolazione, la scarsa istruzione, la debolezza della ricerca, l'inefficienza di molti servizi collettivi, un sistema fiscale in cui convivono sacche di evasione ed una pressione troppo alta. Vedo la tendenza all'illegalità diffusa, a rifugiarsi in difese corporative o in settori di rendita, a difendere con le unghie e con i denti grandi e piccoli privilegi, a evitare ogni possibile apertura alla concorrenza.
E nella nostra società, a fianco di una grande ricchezza a volte nascosta in termini di "capitale sociale", sento esserci uno stato d'animo fatto di smarrimento, di stanchezza, di pessimismo, persino di forme di intolleranza, di incattivimento, di omofobia, di diffidenza e chiusura verso tutto ciò che appare estraneo, diverso.
Sono tutti segni del rischio di declino segnalato in un bel saggio da Michele Salvati, che qui, in questo momento, vorrei ricordare insieme a Pietro Scoppola e ad altri come coloro che hanno stimolato con più determinazione e coerenza la nascita di questo partito nuovo.
L'Italia ha bisogno di crescita. Il governo Prodi sta lavorando per questo, e le cifre, i risultati, stanno confortando lo sforzo e le scelte fatte. In una situazione di straordinaria difficoltà e con una eredità pesante sulle spalle, in un anno il governo ha portato avanti una grande opera di risanamento finanziario che oggi fa rispettare all'Italia i parametri europei, ha rotto un lungo immobilismo con le liberalizzazioni e l'apertura dei mercati, ha restituito credibilità all'Italia sia in sede politico-istituzionale che in sede economica.
E sia chiaro che il primo compito del nascente Partito democratico è il pieno, coerente e deciso sostegno all'azione del Governo Prodi, al cui successo sono legate molte delle prospettive dei democratici.
L'Italia deve crescere, deve crescere e investire sulla sua competitività, sul talento e sulla creatività dei suoi ceti produttivi, sull'unicità della sua bellezza e della sua cultura. La cultura, il nostro patrimonio ambientale, monumentale, artistico: è qualcosa che certo non teme delocalizzazioni, che è legato alla nostra storia e al nostro territorio, che è una delle nostre più grandi risorse, un elemento della nostra identità e della nostra forza nel mondo.
Crescere e competere è possibile, si è dimostrato. Il sistema bancario italiano non è più quella frammentazione di soggetti che è stato per molto tempo. Oggi banche e industrie nazionali acquistano, conquistano ed entrano a far parte di reti e gruppi europei. La nazionalità non si difende con le barriere, ma con una maggiore competitività, con un'ampia disponibilità all'innovazione, con la capacità del sistema Paese di promuovere e di accompagnare.
Penso ad esempio alle medie imprese. Il Paese vive di questo. Sono il cuore dell'Italia che produce, a cominciare dal Nord, anche perché ciascuna di esse porta con sé nella competizione globale un gran numero di micro-imprese. Stanno creando sviluppo, sono una delle carte più alte che abbiamo in mano per raggiungere possibili futuri successi. Vanno sostenute, vanno aiutate a diventare grandi, a non cadere in una spirale esclusivamente finanziaria, a spingere verso l'innovazione.
E' più di una scelta. Deve essere nella natura del Partito democratico, fare questo. Dobbiamo saperlo: senza crescita, gli obiettivi di una grande forza dell'equità e delle opportunità sono destinati a soccombere.
La battaglia da sostenere, diceva Olof Palme, "non è contro la ricchezza, è contro la povertà". Ricordiamole sempre, tutte e due le cose.
Superiamo allora gli odi, i rancori e le divisioni che impediscono di guardare con lucidità alla situazione economica. La ripresa economica non è né di destra né di sinistra: è un bene per tutto il Paese, e tutti abbiamo il dovere di fare ciò che è necessario per prolungarla, rafforzarla, estenderla ai settori e ai territori che ancora non l'hanno agganciata. Un duraturo e moderno sviluppo economico non si ottiene se ciascun soggetto, ciascuna impresa, ciascuna categoria, si rinchiude in sé stessa come una monade isolata dal contesto esterno. Non si fa sviluppo con l'egoismo. E nemmeno con l'egoismo nazionale.
Ogni nostalgia nazionalistica è del tutto anacronistica. In un'Europa debole e divisa, nessuno Stato nazionale, grande o piccolo che sia, è in grado di assicurare ai suoi cittadini prosperità, sicurezza, libertà, pace. E' solo l'Unione, che non cancella identità e culture nazionali, che può riuscire a far questo. Può riuscire solo un'Europa politica e democratica, che abbia più peso e più responsabilità, che segua il principio guida fissato all'inizio dell'avventura europea, quello della limitazione delle sovranità nazionali.
L'azione che il governo italiano sta portando avanti, il ruolo che lo stesso Presidente Napolitano svolge, sono la prova di quanto sia importante che i Paesi più convintamente europeisti, come il nostro, non lascino che l'Unione venga sospinta al largo dal vento dell'euroscetticismo, che in questo momento soffia forte. Che non rinuncino all'idea di far procedere speditamente l'Europa con il principio della doppia maggioranza e con lo strumento della cooperazione rafforzata. L'Europa ha bisogno di un'Italia stabile, forte, che cresce.
La nuova Italia nasce dalla riscrittura di almeno quattro grandi capitoli della nostra vicenda nazionale: ambiente, nuovo patto fra le generazioni, formazione e sicurezza.
1) I mutamenti climatici sono il primo banco di prova di questa vera e propria sfida. Dobbiamo convincerci tutti che l'aumento dell'effetto serra causato dal modo tradizionale di produrre e consumare energia non è un problema di astratta e accademica ecologia. I cambiamenti del clima sono ormai un drammatico dato di fatto: fermarli non è solo un dovere etico verso le future generazioni, è un interesse tremendamente concreto di noi contemporanei. In cima alle priorità della politica e dell'azione pubblica deve stare il futuro ambientale del nostro Paese e dell'intero pianeta. Affrontare i cambiamenti climatici. Realizzare gli obiettivi di Kyoto, e i successivi che sarà necessario darsi per ridurre le emissioni. Potenziare le azioni di risparmio energetico. Espandere l'uso delle fonti rinnovabili. Investire in dosi massicce sulle infrastrutture e sulle tecnologie per la mobilità ecosostenibile. Mettere l'apparato industriale e di ricerca italiano in linea con quelli dei paesi che prima di noi hanno investito sulle nuove tecnologie per l'ambiente.
La strada è quella indicata dai tre "20%" fissati come obiettivo al 2020 dall'Unione Europea: +20% di fonti rinnovabili, -20% di consumi energetici, -20% di emissioni di gas serra. Che vuol dire consumare molta meno energia per ogni euro di Pil prodotto, diffondere l'uso dell'energia solare ed eolica, promuovere il risparmio energetico nell'industria, nei trasporti, nei consumi civili.
L'Italia deve giocare da protagonista questa partita recuperando il terreno perduto, oppure non solo avremo mancato di dare il contributo che ci tocca a fermare i mutamenti climatici, ma ci ritroveremo più arretrati, meno dinamici e competitivi degli altri grandi paesi europei. Anche in termini di investimenti, la riconversione ambientale del Paese può diventare un traino per l'intera economia, come è stato in passato per il settore delle telecomunicazioni. Per farlo, si può utilizzare anche il sistema dei prezzi e del mercato, per favorire una grande allocazione di risorse a favore delle politiche ambientali. Si può pensare ad esempio a tasse di possesso automobilistico legate alla qualità delle emissioni, alla detassazione degli investimenti in ricerca e sviluppo ambientale, alla previsione di inasprimenti fiscali per tutti coloro che si sottraggono alle sfide dell'ecocompatibilità.
Quello a cui pensiamo è l'ambientalismo che proponendosi di diventare politica generale, informatrice di ogni scelta, rifiuta la logica del no a tutto. Non si può dire no all'alta velocità se poi l'alternativa è il traffico che inquina e la qualità della vita che peggiora perché per spostarsi ci vuole il doppio del tempo e il doppio dei consumi, il doppio dell'energia. Non si può dire di no al ciclo di smaltimento dei rifiuti moderno ed ecologicamente compatibile e lasciare che l'unica l'alternativa siano discariche a cielo aperto ed aria irrespirabile e nociva.
Quello a cui pensiamo è l'ambientalismo dei sì. Sì a utilizzare le immense possibilità della tecnologia per difendere la natura. L'ambientalismo è l'unico campo in cui l'obiettivo più radicale è conservare: conservare un equilibrio naturale. Ma è anche l'unico campo in cui l'unico modo per conservare è innovare: dal ciclo di smaltimento dei rifiuti, appunto, alla possibilità di muoversi usando infrastrutture su ferro; dall'uso dell'energia solare all'idrogeno. Sono le conquiste scientifiche e tecnologiche a consentire, oggi, di difendere l'aria, l'acqua, la Terra.
2) Un nuovo patto generazionale. Per fortuna - o meglio, per merito di quello stato sociale che i nostri padri hanno costruito per far fronte al rischio della malattia e della vecchiaia - l'età media si allunga. Nella sua recente Relazione il governatore Mario Draghi lo ha sottolineato con estrema chiarezza: nel 2005 vi erano 42 ultrasessantenni per ogni 100 cittadini. Ve ne saranno 53 nel 2020 e ben 83 nel 2040.
È una buona notizia. Non è una disgrazia che ci cade tra capo e collo. Una disgrazia la può diventare solo se noi saremo conservatori, pretendendo di fare fronte alle nuove insicurezze e ai nuovi problemi - almeno in parte connessi ai nostri stessi successi - con le vecchie ricette.
Pensate alla portata straordinaria dell'innovazione introdotta più di trent'anni fa nella previdenza pubblica dall'adozione del sistema cosiddetto a ripartizione, che sostituiva quello a capitalizzazione, nel quale ognuno versava i contributi "per sé": io lavoratore in attività pago oggi i miei contributi, che vengono usati per pagare le pensioni ai pensionati di oggi, in nome del patto, garantito dallo Stato, che prevede che i lavoratori attivi di domani pagheranno a loro volta la mia pensione... e così via, in un sempre rinnovato rapporto di solidarietà tra le generazioni.
È solo un esempio di metodo, che faccio per dimostrare come il dinamismo economico e sociale - ed un più elevato grado di giustizia sociale - possa essere sorretto da un patto tra generazioni che sappia ispirarsi ai valori eterni di solidarietà ed eguaglianza, ma anche modificare profondamente gli strumenti e le politiche per attuarli.
È su quest'ultimo terreno che abbiamo accumulato un ritardo. Perché non siamo stati sempre fedeli interpreti di quel principio di distinzione tra destra e sinistra che enunciò tanti anni fa il più giovane vecchio della sinistra italiana, Vittorio Foa, quando rispose: destra e sinistra? La prima, è figlia legittima degli interessi egoistici dell'oggi. La seconda, è figlia legittima degli interessi di quelli che non sono ancora nati.
Ecco. Non si può dire meglio. Ma dobbiamo poi essere conseguenti, anche - mi si passi la pedanteria - nell'uso del nostro tempo: da molti anni dedichiamo almeno un'ora al giorno del nostro tempo a discutere se si deve andare in pensione a 57, a 58 o a 60 anni, ma solo qualche secondo a progettare una risposta al fatto che continua ad aumentare il numero dei bambini che vivono in famiglie al di sotto della linea di povertà relativa; lo stesso esiguo tempo che dedichiamo a cercare soluzioni per le famiglie che, dovendo improvvisamente fare fronte alla cura di un anziano non autosufficiente, vedono la qualità della loro vita e il livello del loro reddito precipitare verso il basso, spesso in modo insostenibile.
Ecco quale Partito democratico io vorrei: un partito che lavori al buon esito del confronto sull'ammorbidimento dello "scalone", certo, ma concentri la gran parte dei suoi sforzi di elaborazione e di iniziativa sugli odierni fattori fondamentali di disagio e di disuguaglianza, proprio a partire dalle principali vittime del mancato adeguamento dello Stato Sociale alla nuova realtà della società e dell'economia: bambini poveri nei primi anni di vita e persone molto anziane non autosufficienti.
Il Partito democratico che vorrei deve darsi, a questo proposito, obiettivi anche quantitativamente verificabili, in un orizzonte di medio-lungo periodo. Noi sappiamo che questa mattina, in Italia, nello stesso ambito territoriale, sono nati due bambini: uno è figlio di genitori entrambi laureati, l'altro è figlio di genitori con diploma di scuola media inferiore. Il primo ha sette volte le probabilità del secondo di laurearsi: un abisso di dispari opportunità, una immobilità sociale che è causa non ultima dello scarso dinamismo economico.
L'insieme degli obiettivi per cui nasce il Partito democratico potrebbe dunque riassumersi in uno solo: noi vogliamo che, entro dieci anni, questo divario di opportunità - di vita, di successo e di felicità - si riduca del 30%, facendo ripartire quella mobilità sociale che, forte dai primi anni '60 fino alla metà degli anni '70, ha progressivamente frenato, fino ad arrestarsi del tutto.
La nostra società deve muoversi. Oggi, in una società immobile, a pagare il prezzo più alto sono i nostri ragazzi, che prima dei venticinque-trent'anni non entrano nel mondo del lavoro, e che non possono più contare su quella sequenza certa - studio, lavoro, pensione - che abbiamo conosciuto noi. E' come se oggi la vita dei giovani italiani fosse scandita da un orologio sociale ormai sfasato, messo a punto per un tempo che non c'è più.
Perché mai oggi un ragazzo non deve poter avere le garanzie, le tutele sociali e le opportunità che esistono per i suoi coetanei inglesi? Perché non può contare su un efficace sistema di ammortizzatori sociali - quello verso il quale il governo si sta incamminando - di fronte al rischio di perdere il lavoro, di doverlo cambiare o anche solo alla voglia di farlo? Perché in questi casi non può fare affidamento su indennità di disoccupazione e su opportunità di formazione utilizzabili lungo l'intero arco della vita? E perché se vuole metter su famiglia e ha il problema della casa non deve poter contare su un vasto insieme di interventi che vanno dal rilancio dell'edilizia popolare, alla sperimentazione di un nuovo housing sociale, alla messa in campo di strumenti finanziari che sblocchino il mercato degli affitti o di interventi che rendano disponibili con meccanismi di mercato le tantissime abitazioni oggi vuote?
Mi ripeto, so di farlo: la lotta alla precarietà è la grande frontiera che il Partito democratico ha davanti a sé. Non si vince questa lotta senza riscrivere un patto generazionale tra gli italiani. Senza spostare le ingenti risorse oggi impegnate per far fronte agli squilibri del sistema pensionistico verso i giovani e la loro inclusione.
Il sindacato, che nel corso della nostra storia ha più di una volta saputo difendere i diritti e gli interessi dei lavoratori assumendosi con coraggio responsabilità generali, sta dimostrando, deve dimostrare, di poter essere protagonista della scrittura di questo nuovo patto. Il Governo, che ha saputo praticare nuovamente quel metodo della concertazione che nel recente passato ha permesso all'Italia di raggiungere traguardi che a prima vista sembravano impossibili, ha iniziato a scriverne pagine importanti. Come quella che finalmente, in queste ore, sta portando ad un aumento delle pensioni più basse.
Altri passi dovranno seguire: azioni per l'invecchiamento attivo, perché gli anziani esprimono tante energie non solo per le loro famiglie, ma anche per la collettività; flessibilità di uscita e part-time in uscita, perché deve essere garantita ai lavoratori una vera libertà di scelta; maggiore sicurezza sul lavoro, perché su questo ogni giorno c'è un terribile bollettino che nega la civiltà del nostro Paese.
C'è poi un capitolo, del patto fra le generazioni, che dobbiamo avere il coraggio di non dimenticare. A carico di noi tutti, ormai da vent'anni, pesa un ingente debito pubblico, conseguenza dei conflitti sociali degli anni '70 e dell'irresponsabilità degli anni '80. Anche questo, rischiamo di trasferire alle generazioni più giovani e ai nostri figli.
Con l'ingresso nell'euro abbiamo fatto il primo grande passo per permettere al Paese di andare oltre, di proiettarsi verso il futuro. Ma dobbiamo oggi progettare il passo ulteriore. Come spiegheremmo, in caso contrario, una simile inadempienza ai nostri figli?
Una politica finanziaria rigorosa, quindi, non è figlia dell'ideologia, ma della necessità. La necessità di generare risorse per abbattere gradualmente il debito pubblico.
Il cammino del risanamento delle pubbliche finanze è ricominciato, grazie agli sforzi del Governo Prodi. Il deficit pubblico, che aveva raggiunto il 4,4% del Pil nel 2005 scenderà al 2,3% nel 2007. Il positivo ciclo economico ha aiutato l'azione del Governo, e dobbiamo fare ogni sforzo per far funzionare ancora per alcuni anni il circolo virtuoso fra crescita e risanamento. Ogni frutto aggiuntivo che il meccanismo potrà generare dovrà poi equamente essere utilizzato per la riduzione della pressione fiscale e per il sostegno alle nuove politiche del patto intergenerazionale.
La pressione fiscale. So che l'artigiano, il commerciante, il piccolo imprenditore quando è leale col fisco - e lo sono i più - paga molto, troppo. So che trova insopportabili i costi che deve affrontare per rispondere ai mille adempimenti burocratici che sono la premessa del pagamento delle tasse. So che, ad esasperarlo, è la distanza tra ciò che paga e ciò che riceve in cambio, in termini di infrastrutture, di efficienza della Pubblica Amministrazione, di buon funzionamento del servizio giustizia e sicurezza. E so infine che questo imprenditore si trova spesso di fronte ad un'Amministrazione Finanziaria che chiede a lui puntualità e precisione per ogni adempimento, ma è tutto meno che puntuale e precisa quando deve ridare al contribuente quei crediti che - specie nel caso dell'Iva - si fanno invece attendere per anni.
Non è con gli odi di classe che si sconfigge l'evasione. E', al contrario, attraverso il convincimento e l'adesione ad un comune progetto per la società. E' attraverso la semplificazione del sistema tributario e dei suoi adempimenti. E' con la trasformazione dell'amministrazione fiscale in soggetto che offre un servizio ai cittadini e alle imprese utilizzando condizioni il più possibile amichevoli e poco invadenti.
Da questa consapevolezza, faccio derivare un impegno preciso: io penso ad un Partito democratico che in tema di lotta all'evasione fiscale bandisca dalla sua cultura politica ogni pregiudizio classista, considerando altrettanto esecrabili quell'imprenditore che evade, quel pubblico dipendente che percepisce lo stipendio e non fa quello che dovrebbe e chi offre lavoro in nero.
E poi, penso ad un Partito democratico che lavori duramente alla riqualificazione della spesa pubblica: ogni anno, ci si scatena in una lotta durissima per limare ai margini i capitoli di spesa, in più o in meno, senza mai gettare lo sguardo sulla parte più consistente della spesa, quella che si ripete ogni anno, senza che ci si chieda se serve davvero a qualcosa. Le pubbliche amministrazioni devono invece giustificare l'utilità di tutte le somme che richiedono, non solo di quelle aggiuntive: giustificare fin dal primo euro ogni richiesta di stanziamento, valutare fino all'ultimo euro come sono stati utilizzati i soldi dei contribuenti.
Qui c'è il nodo cruciale delle infrastrutture: hai un bell'innalzare la produttività del lavoro in azienda, hai un bel curare l'innovazione costante del prodotto e del processo, quando poi il tuo competitore straniero ti batte perché la sua merce viaggia verso i mercati ad una velocità tripla, o quadrupla, rispetto alla tua. O quando il tuo competitore tedesco, per ricavare quel che si può dal fallimento di un suo creditore, in sede giudiziaria, deve aspettare meno della metà del tempo che devi aspettare tu, qui in Italia.
Non è solo questione di soldi. Per il servizio giustizia, in rapporto al Pil, spendiamo come gli altri partners europei. Ma otteniamo tanto di meno.
E per le infrastrutture materiali, almeno al Nord, i soldi si potrebbero trovare sul mercato finanziario. È questione di riforme non fatte. Nella Legge Finanziaria per il 2007, ad esempio, c'è un primo segnale, a proposito di infrastrutture: l'intesa Governo centrale-Regione Lombardia, che attribuisce il potere di decidere per le concessioni stradali e autostradali a una società creata dalla Regione e dall'Anas. Un primo passo verso un vero federalismo in campo infrastrutturale. Un'esperienza che può essere estesa ad altre Regioni, così creando le condizioni per responsabilizzare cittadini e istituzioni, aggredire i diritti di veto, chiamare i capitali privati a concorrere a migliorare la dotazione infrastrutturale del Paese, con uno schema che preveda una quota di risorse pubbliche superiore per il Mezzogiorno.
Tutto bene, si dirà. Ma la pressione fiscale complessiva, secondo il Partito democratico, deve diminuire o no?
Se la domanda venisse posta solo da quelli che hanno promesso di "abolire l'Irap" e di ridurre la pressione fiscale, che hanno governato per cinque anni e hanno lasciato l'Irap intatta e la pressione fiscale (somma di tutti i contributi più tutti i tributi, in rapporto al Pil) di quasi un punto più alta di quella del 2001, non varrebbe la pena di rispondere. Ma questo non ci esime dal dire con chiarezza che per troppi anni la sinistra si è accomodata nella logica del "tassa e spendi". È nostro interesse e dovere, dunque, dar conto della svolta che dobbiamo operare.
Parliamoci chiaro: con un volume globale del debito pubblico quasi doppio rispetto a quello dei nostri principali partners europei, il livello della pressione fiscale non potrà essere drasticamente ridotto, nei prossimi anni. Ripeto: hanno dovuto prenderne atto, nei cinque anni trascorsi, anche quanti avevano irresponsabilmente proposto di diminuirlo di un punto di Pil all'anno per cinque anni. È invece assolutamente realistico prevedere una consistente riduzione della pressione complessiva nei prossimi tre anni: la rende possibile proprio quella stabilizzazione della finanza pubblica che è uno dei migliori risultati di questo primo anno di governo.
Così "aggiustato" nell'immediato futuro il livello complessivo della pressione fiscale, dovremo finalmente aggredire due nodi di ben altra difficoltà: l'evasione fiscale da un lato e l'equilibrio tra le diverse forme di imposizione dall'altro.
L'evasione è il cancro che corrode il rapporto di fiducia tra cittadino e Stato: se il livello della pressione fiscale italiana è ormai paragonabile a quello dei grandi paesi dell'Europa continentale, il più elevato livello di evasione ci dice che - sui contribuenti o nesti e leali - siamo giunti a un carico elevatissimo, da record europeo. Il rischio è che si precipiti in un circolo vizioso: le innovazioni legislative funzionali alla lotta all'evasione mettono nuovi compiti burocratici e nuovi costi a carico dei contribuenti che già pagano; altre innovazioni legislative innalzano le aliquote o allargano le basi imponibili, mentre quelli che evadono tutto o quasi restano al riparo dalle une e dalle altre.
Mi chiedo se non si debba lavorare a un profondo ripensamento di tutto questo, per entrare in una spirale virtuosa: man mano che lo Stato abbassa le aliquote e semplifica gli adempimenti, i contribuenti accrescono il livello di fedeltà delle loro dichiarazioni, e la loro recuperata fiducia nello Stato crea quel clima di condanna sociale dell'evasione che oggi manca.
Non sto proponendo, vorrei che fosse chiaro, la flat tax, tanto cara alla destra in Europa e nel mondo. Sto parlando di un'iniziativa che - nel contesto di un sistema fiscale che obbedisce al principio costituzionale della progressività e, anzi, al fine di meglio applicarlo - rinnovi il patto fiscale che è alla base di una ben organizzata comunità.
Pagare meno, pagare tutti: in questi lunghi anni che ci stanno alle spalle, questo indirizzo è stato interpretato nel senso che solo quando tutti avranno preso a pagare tutto, secondo le aliquote elevate oggi in vigore, solo allora si potrà far pagare meno, cioè ridurre le aliquote, ottenendo un gettito pari. Mi pare di poter dire che i risultati delle diverse stagioni politiche non depongono a favore di questa strategia. Proviamo allora ad adottarne una che agisca contemporaneamente sui due tasti, attraverso un approccio graduale.
Pensiamo ad esempio alla tassazione degli affitti. Oggi, l'evasione dilaga: chi percepisce l'affitto, dovrebbe pagarci sopra le tasse con l'aliquota marginale dell'Irpef. Chi lo paga "in bianco", non detrae nulla. Proviamo a fare il contrario: aliquota del 20% sull'affitto percepito, uguale per tutti (l'aliquota più bassa dell'Irpef è il 23%) e significativa detrazione per chi lo paga, uscendo dal "nero". Nei primi anni la caduta del gettito sarebbe troppo pesante? Cominciamo allora dalle case prese in affitto dalle giovani coppie e dagli studenti universitari e poi, se funziona, estendiamo la riforma a tutti gli affitti.
Quanto alle forme dell'imposizione fiscale, non c'è dubbio che oggi esista un grave squilibrio tra pressione sulla rendita da un lato e pressione sul lavoro e sull'impresa dall'altro. Anche in questo caso, vorrei bandire ogni equivoco: un ben funzionante mercato finanziario è una delle condizioni dello sviluppo. E il mercato finanziario funziona bene se è aperto. E, per aprirsi, non può sopportare forme di prelievo fiscale sulle rendite incompatibili con quelle prevalenti nell'area economico-finanziaria e monetaria di riferimento.
Ma proprio questo è il punto: il prelievo fiscale sulla rendita è in Italia decisamente più basso di quello medio in Europa, così da provocare evidenti distorsioni. Cito quella che mi pare la più clamorosa: un manager, sulle plusvalenze delle sue stock options, paga con un'aliquota del 12,5%; un operaio che versa il suo salario in banca paga sugli interessi un'aliquota del 27%. Dobbiamo dunque operare per l'armonizzazione delle aliquote di prelievo, prendendo tutte le precauzioni, ma senza timidezze. Fra l'altro, i mercati finanziari, a fine 2006, già hanno scontato gli effetti dell'armonizzazione, in forza degli annunci fatti dall'Unione in campagna elettorale.
3) Se la nostra è la società della conoscenza, l'educazione e la formazione sono al centro di tutto. Non possiamo più trovarci costantemente agli ultimi posti tra i paesi a cosiddetto sviluppo avanzato, non è più accettabile che i diplomati tra i 25 e i 64 anni, ossia nella fascia di età dove si concentra il tasso di occupazione, siano solo il 37,5%, otto punti in meno della media Ocse. Non è possibile che i laureati in Italia siano appena il 12% della popolazione, poco più di uno ogni dieci italiani, la metà della media Ocse.
Abbiamo bisogno di un piano nazionale per la scuola e l'Università. E' una priorità assoluta. Dobbiamo dare credito alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi. Renderli sicuri che alla fine del loro percorso formativo, sia nelle scuole secondarie che nelle Università, potranno avere accesso ad una prima esperienza di lavoro, sotto forma di stage, di master, di apprendistato tradizionale o di alto apprendistato. Dobbiamo offrire a tutte e tutti un'opportunità, con meccanismi di selezione trasparenti, che premino i più meritevoli. E valorizzare, soprattutto, il sistema dell'istruzione tecnica e professionale, per il quale il sistema delle imprese italiane esprime una domanda di circa 200 mila giovani qualificati all'anno, che spesso, e soprattutto al Nord, c'è difficoltà a reperire. Dobbiamo attrarre studenti e docenti nelle nostre università: per questo abbiamo bisogno di un sistema di campus universitari, come i tre che abbiamo in cantiere a Roma, che permettano di calmierare il mercato degli affitti e di offrire ospitalità a costi accessibili.
E poi anche nel nostro sistema formativo c'è una "questione meridionale". Vorrei citare ancora il governatore Draghi, la sua Relazione: "La bassa collocazione del nostro sistema scolastico nelle graduatorie internazionali ha una caratterizzazione territoriale che merita attenzione. Al Sud i divari nei livelli di apprendimento sono significativi già a partire dalla scuola primaria, tendono ad ampliarsi nei gradi successivi: un quindicenne su cinque nel Mezzogiorno versa in una condizione di 'povertà di conoscenzà anticamera della povertà economica. Il ritardo si amplia se si tiene conto dei più elevati tassi di abbandono scolastico. L'esistenza di un divario territoriale così marcato mostra che il problema non sta solo nelle regole, ma anche nella loro applicazione concreta". E conclude: "Per cambiare la scuola italiana si deve muovere dalla constatazione dei circoli viziosi che la penalizzano, disincentivano gli insegnanti, tradiscono le responsabilità della scuola pubblica".
4) La sicurezza. Cominciamo con l'essere chiari: nessuno scrolli le spalle o definisca razzista un padre che si preoccupa di una figlia in un quartiere che non riconosce più. La sicurezza è un diritto fondamentale che non ha colore politico, che non è né di destra né di sinistra. Chi governa ha il dovere di fare di tutto per garantirla.
Avendo ben presente il presupposto: integrazione e legalità, multiculturalità e sicurezza, vivono insieme. Insieme stanno. Insieme cadono. Chi viene da lontano per scappare dalla fame e dalla guerra non può che essere almeno accolto da un Occidente egoista e avido. Ma per chi ruba ai cittadini quel bene prezioso che è la serenità c'è solo una risposta, ed è la severità e la fermezza con cui pretendere che rispetti la legge e che paghi il giusto prezzo quando questo non accade, quale che sia la sua nazionalità. Chi viene qui per fare male agli altri o per sfruttare donne o bambini deve essere assicurato alla giustizia, senza se e senza ma.
Dalla mia esperienza di questi anni ho imparato che la visione nazionale di un problema fondamentale come questo diventa concreta quando viene calata nella realtà del territorio. Quando la cooperazione forte tra governo e amministratori è una scelta non episodica ma strategica. Perché noi continuiamo a basarci su un modello che è sempre lo stesso da quarant'anni, mentre nel frattempo l'Italia è cambiata, sono cambiati gli insediamenti urbani e il territorio da governare è diventato più ampio ed eterogeneo, sono cambiati gli stili di vita delle persone.
Le politiche sociali, i processi di inclusione, sono importanti, lo sappiamo bene. Ma insieme, e siamo noi a poter coniugare le due esigenze, dobbiamo pensare ad un modo nuovo di assicurare e aumentare la presenza dello Stato sul territorio. C'è un problema di efficacia e c'è un problema di rassicurazione, perché ci sono i reati che tolgono la sicurezza reale e c'è la percezione dell'insicurezza. Anche questa merita risposte.
Più gente per strada, di questo c'è bisogno. Pensiamo solo a quale salto nei livelli di tutela della sicurezza delle persone e delle imprese si otterrebbe se tutto il personale che veste una divisa delle forze dell'ordine venisse liberato, tramite un processo di mobilità, dalle attività amministrative per essere impiegato a presidio del territorio, laddove i cittadini o nesti - e anche i delinquenti - possano "sentirne" la presenza fisica.
Insomma, una nuova Italia richiede un cambiamento profondo, in molti casi radicale.
Il Partito democratico, la sua stessa nascita, può contribuire ad accelerare, a introdurre un forte elemento di coesione politica e programmatica.
Il Partito Democratico, ognuno lo intende, serve anche a "fissare" i riformisti al principio del bipolarismo e della alternanza. Quel principio che in varie forme, e con vari modelli elettorali, vive in ogni paese europeo. Bipolarismo, in alcuni casi bipartitismo, appaiono il modo in cui, per virtù politiche e/o istituzionali, si succedono al governo forze diverse, in un clima di stabilità e di rappresentanza non frammentata.
Le elezioni legislative francesi sono state un modello di funzionamento istituzionale perfetto: i cittadini hanno scelto con il loro voto e hanno selezionato, in due turni, un Parlamento compatto in un contesto democratico equilibrato. E così per le presidenziali: chi ha perduto ha riconosciuto pochi minuti dopo le prime proiezioni il successo del vincitore. Il Presidente eletto ha invitato all'Eliseo il contendente per discutere i lineamenti della posizione che la Francia avrebbe portato al Consiglio europeo. Tra cinque anni i cittadini misureranno se gli impegni presi dalla maggioranza e dall'opposizione sono stati rispettati.
Vediamo, nel caso francese, due aspetti. Uno è il funzionamento della legge elettorale e dei meccanismi istituzionali. L'altro è il senso di responsabilità nazionale delle forze politiche. Da noi tutto è frammentazione. Abbiamo, in questa legislatura, ben quattordici gruppi parlamentari. I partiti di governo sono dieci, più o meno altrettante sono le formazioni politiche che stanno all'opposizione. Ci vuole davvero poco per vedere quanto la legge elettorale irresponsabilmente approvata nella scorsa legislatura abbia favorito l'ingovernabilità del Paese.
Non è possibile, voglio dirlo con chiarezza, che in un sistema democratico moderno un senatore possa avere nelle mani il destino di una legislatura. Non è possibile che il suo voto possa contare più del voto di milioni di persone chiamate a scegliere chi governa.
La democrazia invece è proprio questo: "decisione". E' ascolto, è condivisione. Ma alla fine, è decisione.
Un governo che abbia i poteri per essere tale, un Parlamento che controlli severamente e indirizzi l'azione dell'esecutivo, ma che non pretenda di essere, esso stesso, governo assembleare.
Nei Comuni e nelle Regioni c'è stata, in questi anni, stabilità. E c'è stato cambiamento. I Sindaci rispondono ai cittadini e non, come era un tempo, alle correnti dei partiti. E i poteri locali sono divenuti un motore prepotente dello sviluppo italiano e dell'incremento del Pil. Con una costante crescita, specie per i Comuni, nel gradimento dei cittadini verso le istituzioni.
La legge elettorale deve essere cambiata. Si trovi un meccanismo, non bisogna guardare lontano, che garantisca quattro obiettivi: contrasto della frammentazione, stabilità di legislatura, rappresentatività del pluralismo, scelta del governo da parte dei cittadini.
La legge è urgente e necessaria. E' una condizione della vita democratica del Paese. Solo chi non è responsabile può pensare di trascinare l'Italia verso altre elezioni, che con questo sistema produrrebbero solo altra instabilità e altro caos. Cambiare, in un confronto parlamentare serio e aperto. E se il Parlamento non riesce a farlo sarà allora il referendum a spingere, sulla base dell'abrogazione, verso la definizione di un nuovo sistema.
L'Italia ha bisogno di stabilità. Quella stabilità che è stata tanto più vicina, in quest'ultimo decennio, tanto più ci siamo incamminati lungo la strada del bipolarismo, iniziata con la riforma in senso maggioritario del vecchio sistema elettorale proporzionale. Quello, sarebbe bene ricordarlo sempre, delle crisi di governo pressoché continue e degli esecutivi non scelti dai cittadini con il loro voto, ma formati dopo lunghe e a volte non troppo chiare trattative che duravano settimane, se non mesi.
La possibilità della scelta: questo è il principio da affermare e da far vivere. Questa è la chiave da consegnare all'Italia.
Agli italiani, che devono poter scegliere in modo lineare, pieno e consapevole chi dovrà governarli per cinque anni. A chi governa, che deve avere gli strumenti necessari per guidare il Paese, per attuare il programma con il quale è stato eletto, per decidere.
Questa è la forza della democrazia, di una "democrazia che decide". Delega e responsabilità. Equilibrio tra potere di decisione e potere di controllo. Con lo scettro affidato a coloro ai quali spetta in democrazia: i cittadini, il popolo che vota e che dopo cinque anni approverà o boccerà l'operato di chi li ha governati.
Ma la crisi del nostro sistema democratico, più volte richiamata dal Presidente Napolitano con l'amore per le istituzioni e il Paese che tutti gli riconoscono, non è solo legata alla legge elettorale.
E' il sistema istituzionale, che in molti aspetti, deve cambiare. E' ormai matura, sulla spinta della sollecitazione dell'opinione pubblica e della consapevolezza degli stessi gruppi parlamentari, una profonda riforma della politica.
Perché se i parlamentari eletti direttamente sono 577 in Francia, 646 in Gran Bretagna, 614 in Germania e 435 negli Stati Uniti, in Italia ci devono essere mille tra deputati e senatori? Perché una legge deve passare, per essere approvata, una o due volte in due rami del Parlamento? Perché il governo non può vedere approvate o respinte le sue proposte di legge in un tempo certo? Perché il Presidente del Consiglio non ha il diritto di proporre lui al Presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri? Perché non ridurre, a tutti i livelli, la numerosità di tutti gli organismi elettivi? Perché, una volta sviluppato tutto il necessario confronto nelle Commissioni, non approvare la legge finanziaria senza lo stillicidio degli emendamenti in Aula?
Il Parlamento sta andando in questa direzione. Ma bisogna fare presto. La risposta alle domande retoriche che ho posto è una sola, purtroppo. Perché molti, in questo Paese, vogliono una democrazia debole, poteri istituzionali fragili, una politica al tempo stesso flebile e invadente.
Non possono passare anni per una decisione. Non possono essere decine di organismi a dare pareri, mettere veti, condizionare scelte. Non ci possono essere decine di istituzioni da cui un cittadino, un imprenditore o un amministratore deve passare prima di vedere realizzato un progetto.
L'Italia è diventata il Paese in cui tutti, a tutti i livelli, hanno il diritto di mettere veti e nessuno ha il diritto di decidere.
Più è lunga e sfilacciata la filiera delle decisioni, più si fa strada il fenomeno, che temo riemergere, della corruzione. Uno Stato semplice, non barocco, è uno Stato moderno. Quello che la storia e la pratica ci consegnano è invece una eredità confusa e vecchia. Se di fronte ad ogni problema urgente gli amministratori e i cittadini sono costretti a chiedere poteri straordinari, è perché evidentemente quelli ordinari non funzionano.
E torniamo al tema: senza poteri democratici funzionanti, è tutto il sistema che si allenta, si smaglia, apre la strada a poteri illegittimi. Un Paese può perdere la sua democrazia per "eccesso" di decisione, ma può anche perderla per "difetto" di decisione. Gli italiani vogliono che il governo che guida il Paese possa assumere su di sé decisioni e responsabilità, e che e ne risponda. E vogliono sceglierlo. Come in altre democrazie, che funzionano.
E' così, con un'alta capacità di risposta, che si combatterà l'antipolitica. Occorre qui distinguere: un cittadino che critica sprechi e irrazionalità, che chiede alla politica sobrietà e rigore, non coltiva l'antipolitica, dice qualcosa di giusto. Come qualcosa di giusto dice chi vuole siano sempre rispettati i paletti tra sfera della politica e autonomia della società. Chi invece indica qualunquisticamente la politica come il nemico, chi soffia demagogicamente sul fuoco dell'insoddisfazione, ha il dovere di dire cosa si dovrebbe sostituire alla politica e alle istituzioni.
E lasciatemi dire: fa sorridere amaramente che chi ha governato l'Italia per complessivi sei anni cavalchi l'antipolitica con toni populistici quasi fosse un passante qualsiasi, facendo finta di non esserci mai stato.
Io credo nella insostituibilità della politica come strumento di regolazione, come capacità di evitare che una società smarrisca il senso di sé e rifluisca in ogni possibile forma di particolarismo. Ma la politica, per far questo, deve sapere mostrare il suo volto migliore. Bisogna stare meno nei talk-show televisivi, non pensare di avere ogni giorno una cosa speciale da dire. Bisogna che le leadership politiche si misurino con la vita reale dei cittadini. Bisogna che il potere sia sobrio, che rinunci più che chiedere, che non si faccia corpo separato, lontano. Penso al senso dello Stato e all'impegno civile di uomini come Massimo D'Antona e come Marco Biagi, solo e senza scorta.
Penso che spetterà al Partito democratico presentare in Parlamento una organica legge per la riforma degli istituti della politica. Una legge per la politica. Per favorire il carattere necessariamente lieve e ambizioso che la politica moderna deve assumere.
Una politica che sappia condividere: la vita dei cittadini, la quotidianità di persone che iniziano la loro giornata senza leggere gli editoriali dei giornali né domandandosi a quale dei vecchi partiti italiani si sentono legati.
No, non fanno e non si chiedono questo, l'anziana che fatica a pagare l'ultima bolletta del mese con quello che resta della sua pensione, l'operaio che deve mettere insieme un lavoro che non lo soddisfa e il dovere di mandare avanti una famiglia, l'imprenditore che sbatte la testa contro la burocrazia o l'artigiano e il commerciante che ha il dovere di pagare le tasse ma ha anche il diritto di avere uno Stato che gli renda più semplice la vita e lo consideri non un peso ma una risorsa.
Una politica sincera, pragmatica, ancorata ai suoi valori, non ideologica. E che contribuisca a voltare pagina in Italia.
La politica è, e deve essere, contrapposizione aperta, netta e trasparente tra programmi e soluzioni diverse. Ma c'è un confine di sobrietà e di rispetto dei problemi reali delle persone che non può consentire di proseguire oltre su una strada sbagliata.
Sbagliato è che ogni nuovo governo si senta in diritto di smantellare sempre e comunque tutte le leggi varate dal governo precedente e in particolare le regole più importanti, quelle da cui dipende il funzionamento e lo sviluppo del Paese. Non è possibile che tutto ciò che è stato fatto da chi c'era prima di te, se era dello schieramento avverso, sia sempre sbagliato. E con questo voglio dire, per essere chiaro, che una cosa sono le leggi "ad personam", che vanno cancellate, e una cosa è ad esempio una legge come quella sul risparmio, che non è stata negativa.
Basta. Dobbiamo farla finita con lo scontro feroce e con i veleni, con le polemiche che diventano insulto. Il Paese di tutto questo è stanco, non ne può più. E da tempo non perde occasione per dirlo. Per dire che non vuole una politica avvolta dall'odio, dove l'altro è un nemico, dove i problemi reali finiscono in un angolo o vengono affrontati con soluzioni temporanee.
Voltiamo pagina. Gettiamoci alle spalle un modo di intendere i rapporti tra maggioranza e opposizione che non porta a nulla. A nulla, se non a far male all'Italia.
Voltiamo pagina. La politica può essere diversa. Non c'è niente, tranne la nostra volontà, che impedisca la costruzione di un modo di intendere i rapporti basato sulla civiltà, sul riconoscersi reciprocamente.
Mi è stato più volte dato atto di non aver mai partecipato a questa degenerazione del confronto. In ogni caso continuerò così, anche unilateralmente. Continuerò a pensare che non c'è un titolo di giornale che valga più del rispetto di un avversario. Non una battuta volgare che possa essere accettata come normale da un paese non volgare.
Voltiamo pagina. Facciamo in modo, per la prima volta da quindici anni, che non si formino più schieramenti "contro" qualcuno, ma schieramenti "per" affrontare le grandi sfide dell'Italia moderna.
Che la nostra diventi la società del rispetto, dell'apertura, del dialogo. Si può essere in disaccordo senza essere nemici. Si può far vivere una politica in cui si ammetta serenamente la possibilità che l'altra parte possa anche aver ragione. Una politica in cui ci si scontri duramente su programmi e valori, ma capace di convivenza e rispetto istituzionale. Nessuno occupi, mai più, il Parlamento repubblicano sventolando giornali e striscioni.
Sei anni come Sindaco di Roma mi hanno convinto, e credo di poter dire abbiano convinto soprattutto i cittadini romani, al di là delle naturali e legittime convinzioni di ognuno, che è possibile confrontarsi in modo civile e trasparente senza che nulla venga tolto alle rispettive idee. Avendo come unico ed esclusivo interesse il bene della propria comunità, la qualità della vita delle persone.
E' con questo stesso spirito che continuerò a tenere fede all'impegno assunto con i miei concittadini. Con la stessa passione che mi ha fatto stare ogni giorno in mezzo a loro, tra i loro problemi e le loro speranze: un'esperienza unica di ascolto e di condivisione, che proseguirà e che mi accompagnerà sempre in ogni momento, in ogni scelta, in ogni decisione. Al patto che ho stretto con Roma non posso e non voglio venir meno, e d'altro canto l'amore per la mia città, per le mie radici, per il lavoro che sto portando avanti, mi impedisce di fare diversamente.
Il Partito democratico che immagino e che spero si rivolge a tutti gli italiani.
L'Italia deve recuperare in pieno, e il Partito democratico anche a questo deve servire, il senso di un'appartenenza comune, il senso profondo di essere una nazione.
Una nazione unita. Un solo popolo. Una sola comunità.
Non ci sono due Italie, c'è un'Italia sola.
Non c'è un "noi" e non ci sono "gli altri", quando si parla degli italiani.
E non ci può essere "noi" e "gli altri" nemmeno quando si tratta del rapporto tra fede e laicità. La cosa peggiore che il Paese potrebbe avere in sorte è la contrapposizione esasperata tra integralismo religioso e laicismo esasperato. E' un paradosso insostenibile: il bipolarismo politico e istituzionale deve ancora diventare compiuto mentre a dominare la scena ci sarebbe un dannoso e paralizzante "bipolarismo etico".
No, non può essere. La risposta è nella sintesi. Nel punto di equilibrio, che è dovere della politica e delle istituzioni cercare, tra il valore pubblico delle scelte religiose delle persone e la laicità dello Stato. A nessun cittadino che abbia fede, quale essa sia, si chiederà di lasciare fuori dalla porta della politica il proprio percorso spirituale e i propri valori. Anche i non credenti devono rispettare e tener di conto le opinioni di chi, mosso dalla fede, può portare alimento alla vita pubblica. Al tempo stesso, ognuno è tenuto a rispettare quel che la nostra Costituzione afferma e salvaguarda: la laicità dello Stato Repubblicano.
Ed è la democrazia stessa a imporre, a chi è legittimamente mosso da considerazioni religiose, di tradurre le sue preoccupazioni in valori universali e in proposte concrete ispirate alla ragionevolezza, e non specifici della sua religione. In una democrazia pluralista non c'è altra scelta.
La politica, come è stato giustamente detto, dipende dalla nostra capacità di persuaderci vicendevolmente della validità di obiettivi comuni sulla base di una realtà comune. E' qualcosa che vale in particolare per temi come questi, come la tutela della famiglia, come la difesa dei diritti civili di ognuno. A guidarci c'è una Costituzione che indica principi comuni a tutti noi. A guidarci deve essere quel senso della misura, e dell'amore per la coesione della propria comunità, che deve spingere a cercare sempre un punto di incontro virtuoso che non mortifichi i convincimenti degli uni o degli altri.
E' questo spirito di ricerca e di confronto che sta alla base della proposta di legge sui Dico. Se è certamente vero ciò che Savino Pezzotta ha detto, circa il valore costituzionale della famiglia fondata sul matrimonio, è altrettanto vero che, come hanno fatto tutte le altre grandi democrazie, anche in Italia è giusto riconoscere i diritti delle persone che si amano e convivono.
Il Partito democratico deve avere in sé un'ambizione, al tempo stesso, non autosufficiente ma maggioritaria. Deve sapere che il suo messaggio di innovazione e di comunità può motivare il suo campo e conquistare consensi anche diversi. L'elettorato è razionale, mobile, orientato a scegliere la migliore proposta programmatica e la migliore visione.
Fiducia in questa vocazione maggioritaria significa oggi lavorare per rafforzare l'attuale maggioranza. Io rispetto e stimo i nostri partner della coalizione. I sondaggi di queste ore dicono che insieme ad una forte crescita del consenso al Partito democratico si manifesta il ritorno dell'Unione in testa nelle preferenze degli italiani. Così deve essere. Un Partito democratico più forte può sostenere il governo e la sua azione, e insieme fare più forte l'Unione. E può chiedere a tutte le forze di governo, cominciando da se stesso, più coesione, più spirito di squadra, più ascolto reciproco.
Il partito che immagino è un luogo aperto. Aperto, in primo luogo, ai giovani. Il gruppo dirigente dovrà essere composto, a tutti i livelli, dai nuovi ragazzi che nei partiti come nella società hanno voglia di spendersi per il loro futuro e per quello del Paese.
Aperto ai cittadini, a quei movimenti che nel corso di questi anni hanno interpretato meglio la domanda di cambiamento, di rinnovamento della politica, che veniva dalla società italiana.
Aperto a livello regionale, dove insieme a coloro che vengono da storie e da appartenenze di partito dovranno partecipare, contare e decidere, associa
Oggi, 11 luglio, si riunisce il comitato dei 45 per stabilire le regole delle primarie
Ecco l'elenco dei componenti del Comitato dei 45:
Giuliano Amato, Mario Barbi, Antonio Bassolino, Pireluigi Bersani, Rosi Bindi, Paola Caporossi, Sergio Cofferati, Massimo D'Alema, Marcello De Cecco, Letizia De Torre, Ottaviano Del Turco, Lamberto Dini, Leonardo Domenici, Vasco Errani, Piero Fassino, Anna Finocchiaro, Giuseppe Fioroni,Marco Follini, Dario Franceschini, Vittoria Franco, Paolo Gentiloni, Donata Gottardi, Rosa Jervolino, Linda Lanzillotta, Gad Lerner, Enrico Letta, Agazio Loiero, Marina Magistrelli, Lella Massari, Wilma Mazzocco, Maurizio Migliavacca, Enrico Morando, Arturo Parisi, Carlo Petrini, Barbara Pollastrini, Romano Prodi, Angelo Rovati, Francesco Rutelli, Luciana Sbarbati, Marina Sereni, Antonello Soro, Renato Soru, Patrizia Toia, Walter Veltroni e Tullia Zevi.
Giuliano Amato, Mario Barbi, Antonio Bassolino, Pireluigi Bersani, Rosi Bindi, Paola Caporossi, Sergio Cofferati, Massimo D'Alema, Marcello De Cecco, Letizia De Torre, Ottaviano Del Turco, Lamberto Dini, Leonardo Domenici, Vasco Errani, Piero Fassino, Anna Finocchiaro, Giuseppe Fioroni,Marco Follini, Dario Franceschini, Vittoria Franco, Paolo Gentiloni, Donata Gottardi, Rosa Jervolino, Linda Lanzillotta, Gad Lerner, Enrico Letta, Agazio Loiero, Marina Magistrelli, Lella Massari, Wilma Mazzocco, Maurizio Migliavacca, Enrico Morando, Arturo Parisi, Carlo Petrini, Barbara Pollastrini, Romano Prodi, Angelo Rovati, Francesco Rutelli, Luciana Sbarbati, Marina Sereni, Antonello Soro, Renato Soru, Patrizia Toia, Walter Veltroni e Tullia Zevi.
MANIFESTO PER IL PARTITO DEMOCRATICO
Noi, i democratici, amiamo l’Italia. Amiamo la ricca umanità della sua gente; il suo patrimonio ineguagliabile di storia, arte e cultura; l’intreccio di splendide città, di magnifici ambienti naturali e paesaggi che da secoli attrae viaggiatori stranieri. Amiamo il senso profondo di ospitalità e di solidarietà degli italiani, la loro attenzione alla qualità della vita, la loro straordinaria capacità di produrre cose che piacciono al mondo. Noi democratici abbiamo fiducia nell’Italia. Perché è un paese vitale, creativo, operoso, pervaso da un diffuso spirito d’intraprendenza. Un paese che ha contribuito alla prosperità di molte altre nazioni, attraverso l’intelligenza e la tenacia di tanti nostri concittadini. E crediamo che l’Italia possa farcela a stare al ritmo di un mondo che cambia sempre più in fretta.
Siamo convinti che saprà mantenere e migliorare i suoi livelli di vita, se non coltiverà la pretesa illusoria di serrare la porta o di chiudere gli occhi di fronte alle sfide globali, se accetterà di affrontarle insieme all’Europa, se riuscirà a ritrovare slancio, coesione e fiducia.
Ma l’Italia di oggi non è all’altezza delle sue ambizioni e delle sue possibilità. È un paese bloccato, smarrito, che rischia il declino. Il senso civico appare inaridito e il rispetto della legalità è troppe volte umiliato. La classe dirigente è terribilmente invecchiata e quasi esclusivamente maschile. Le donne sono ancora in larga parte escluse dai luoghi della rappresentanza politica. I giovani si scontrano con rendite e privilegi nelle imprese e nelle professioni, nella scuola, nell’università e nella ricerca, nella politica e nella pubblica amministrazione. Guardano con preoccupazione al futuro e faticano a costruirsi una vita autonoma.
Anche per questo, siamo un paese che fa pochi figli. Avvertiamo i segni di un pessimismo diffuso che riguarda la stessa identità dell’Italia come nazione.
L’Italia rischia di tornare ad essere una «espressione geografica», divisa al suo interno tra aree forti, integrate in Europa, ed aree marginali e dipendenti; tra ceti capaci di competere con successo nel mondo globale e vasti strati sociali in sofferenza, di nuovo in lotta con la povertà. A sua volta, la politica è frammentata e rissosa. Si rivela troppo spesso debole nei confronti degli interessi forti ed incapace di svolgere una funzione nazionale. Piuttosto che aiutare l’Italia a rimettersi in moto tutta insieme, finisce per rappresentare o amplificare i particolarismi, attraverso partiti al tempo stesso troppo fragili e troppo invadenti. Diventa concreto così il rischio che si affermino leader populisti, e che nella società prevalgano pulsioni contrarie alla democrazia.
I problemi italiani si collocano d’altro canto in uno scenario più ampio. La democrazia ha vinto i totalitarismi del secolo scorso, ma deve oggi far fronte a sfide di prima grandezza. È spesso prigioniera degli interessi consolidati, più che interprete delle speranze dei deboli. I partiti faticano un po’ ovunque a promuovere la partecipazione e a selezionare una classe dirigente credibile, capace di guardare lontano. Lo sviluppo tecnologico, l’intensificarsi degli scambi e delle comunicazioni rendono la nostra vita più dinamica e più ricca, ci rendono più aperti, ci fanno vivere meglio e più a lungo, accrescono la varietà delle conoscenze a cui possiamo accedere, consentono a un numero crescente di persone, soprattutto tra i giovani, di sentirsi e di essere cittadini del mondo. E cittadini più informati, educati al dialogo con persone di altre culture, costituiscono una preziosa risorsa contro i rischi ricorrenti di chiusure e intolleranze. La democrazia rimane però per lo più relegata nei confini nazionali ed è quindi debole di fronte a fenomeni di dimensione globale come il drammatico deterioramento dell’ambiente e del clima, il terrorismo e i conflitti internazionali, dinamiche demografiche squilibrate, flussi migratori difficilmente controllabili, grandi disuguaglianze tra diverse aree del mondo, abusive ingerenze di interessi economici che minano la sovranità di paesi deboli e ne ostacolano lo sviluppo economico e civile. Il XX secolo, insieme a tante straordinarie conquiste, ci ha consegnato un modello di sviluppo che condanna milioni di persone e intere aree del pianeta alla povertà e che, se non subirà modifiche radicali, renderà la terra invivibile.
Un modello di sviluppo che compromette la libertà delle nuove generazioni e su cui dunque la politica deve intervenire.
Di fronte a sfide così impegnative, tutte le tradizionali famiglie politiche del centrosinistra europeo faticano a trovare, da sole, risposte adeguate. Solo da una comune ricerca può nascere quel pensiero nuovo di cui abbiamo bisogno per capire e governare i grandi cambiamenti nei quali siamo immersi. È per questo che vogliamo costruire un partito nuovo, di donne e di uomini, che superi definitivamente le barriere ideologiche che nel secolo scorso hanno diviso le forze riformatrici e aiuti l’Italia a guardare con fiducia al secolo che è appena iniziato. Con il Partito democratico intendiamo portare a compimento un percorso iniziato da più di dieci anni, con la feconda intuizione dell’Ulivo. Vogliamo anche contribuire a rinnovare la politica europea, dando vita, con il Pse e le altre componenti riformiste, ad un nuovo vasto campo di forze, che colmi la carenza di indirizzo politico sulla scena continentale. E intendiamo concorrere a costruire nel mondo una nuova alleanza tra tutti quelli che vogliono fare della globalizzazione una opportunità per molti piuttosto che l’occasione per rafforzare il potere e la ricchezza di pochi.
Ci riconosciamo nei valori di libertà, uguaglianza, solidarietà, pace, dignità della persona che ispirano la Costituzione repubblicana e nell’impegno a farli vivere in Europa e nel mondo. Questi valori discendono dai molti affluenti della cultura democratica europea. Hanno le loro radici più profonde nel cristianesimo, nell’illuminismo e nel loro complesso e sofferto rapporto. Traggono alimento sia dal pensiero politico liberale, sia da quello socialista, sia da quello cattolico democratico. Sono maturati nella dialettica tra queste diverse tradizioni e dal confronto con le sfide proposte dalle culture ambientalista, dei diritti civili e della libertà femminile, oltre che nella condanna delle ideologie e dei regimi totalitari del novecento. Sono anche frutto di una lunga sequenza di conflitti, basati su appartenenze religiose o di classe, e di tragici errori. Oggi possiamo considerare alle nostre spalle quei conflitti e quegli errori. Oggi sono i valori che ci uniscono e gli obiettivi comuni che intendiamo realizzare a definire la nostra identità politica. Per questo, oggi, noi, i democratici, possiamo proporre, assieme, un progetto forte e credibile per rinnovare l’Italia e costruire l’unità dell’Europa.
L’Italia, una nazione d’Europa
Noi democratici pensiamo l’Italia come una grande nazione d’Europa. Una comunità culturale e politica fondata sui valori democratici della Costituzione e sulla capacità di arricchire le proprie radici nell’incontro e nel dialogo con altre culture e altri popoli. Noi democratici vogliamo l’unità dell’Europa. Un’Europa politica, dotata di una sua Costituzione, e non un semplice mercato comune.
Un’Europa capace di promuovere il proprio sviluppo e di valorizzare il proprio modello sociale. Un’Europa che favorisca l’autogoverno responsabile delle sue comunità e l’unificazione della sua società civile intorno ai principi della democrazia,
del dialogo culturale, della partecipazione e dell’inclusione. Un’Europa capace di parlare con una voce sola sulla scena internazionale e di dare alla imprescindibile solidarietà transatlantica con gli Stati Uniti d’America un carattere paritario. Un’Europa impegnata, in primo luogo insieme alle altre grandi democrazie, nella costruzione di un ordine mondiale fondato su istituzioni multilaterali. Un’Europa consapevole che ciò è condizione per combattere efficacemente le povertà, salvaguardare gli equilibri ambientali sulla linea già espressa con gli accordi di Kyoto, promuovere la democrazia, i diritti umani e il dialogo tra le culture, rifiutando la logica dello «scontro di civiltà». Un’Europa potenza civile, che sappia, anche con una comune politica di difesa, dare il proprio contributo per garantire e preservare la pace nel mondo e combattere il terrorismo fondamentalista con la forza e gli strumenti della legalità internazionale.
È interesse nazionale dell’Italia valorizzare, in Europa, la sua vocazione mediterranea, tanto più a seguito dell’impetuoso sviluppo dell’Asia. Come principale proiezione dell’Europa nel Mediterraneo, l’Italia può svolgere una funzione politica, economica e culturale di primaria importanza, ed affrontare in forme nuove e più efficaci lo storico squilibrio tra il Nord del Paese e il nostro Mezzogiorno.
Noi vogliamo che l’Europa, in particolare grazie all’Italia, operi per trasformare il Mediterraneo da epicentro dei conflitti mondiali a luogo privilegiato del dialogo e della collaborazione tra popoli, culture, religioni, impegnandosi in primo luogo per garantire la sicurezza di Israele e il diritto dei palestinesi ad uno stato pacifico e democratico, per favorire l’ingresso della Turchia nell’Unione europea, per la stabilizzazione dei Balcani e la loro piena inclusione nella casa comune europea.
Noi vogliamo un’Italia più libera, più giusta e più prospera. Per questo intendiamo partecipare allo sviluppo del modello sociale europeo, rilanciandone i due principi ispiratori di fondo: la valorizzazione dell’iniziativa, dei talenti e dei meriti; la promozione di un tessuto sociale solidale, attento al benessere di tutti, in cui nessuno si perda o resti indietro. Vogliamo investire nella produzione e nella diffusione delle conoscenze. Vogliamo un’Italia più capace di fare sistema, di darsi obiettivi condivisi e perseguire un disegno comune. E pensiamo che sia necessario un profondo cambiamento del nostro sistema produttivo, sia incentivando l’innovazione e la crescita delle imprese, sia valorizzando i talenti custoditi nelle pieghe del nostro variegato territorio, nel fitto tessuto delle comunità locali che da sempre alimentano la nascita di nuove imprese e la nostra grande tradizione artigianale. Dobbiamo coltivare il capitale umano, il senso civico e la coesione sociale, senza i quali i nostri distretti industriali non sarebbero mai decollati e la vocazione turistica di tanta parte del nostro paese verrebbe sprecata.
Noi vogliamo un’Italia più unita, più omogenea sul piano economico e sociale. Per questo mettiamo al centro della nostra azione il Mezzogiorno. Dobbiamo assolutamente cogliere, come nazione, l’opportunità di farne il principale raccordo che, attraverso il Mediterraneo, unisca l’Europa e l’Asia. In questo quadro, la predisposizione di adeguate piattaforme logistiche, infrastrutture di comunicazione e reti telematiche, è fondamentale per attrarre stabilmente capitali e iniziative imprenditoriali. A questo fine vogliamo chiamare a raccolta tutte le migliori energie della nazione, per un progetto che richiede ingenti risorse eco7 nomiche, ma soprattutto un impegno straordinario per riformare profondamente il settore pubblico, per combattere inefficienze, favoritismi, corruzione e mettere in moto le grandi riserve di ingegno di cui il Mezzogiorno è ricco. Noi democratici vogliamo che l’Italia dia ad ogni persona uguali opportunità di affermarsi grazie alle proprie capacità, alla creatività, al merito. Vogliamo un paese che premi le persone in base al loro lavoro e alla loro capacità di creare opportunità di lavoro per altri, più che in base alle eredità e alle rendite. La competenza, l’operosità, l’ingegno, la fatica, la capacità di creare imprese competitive devono essere concretamente riconosciute e apprezzate, in tutti i campi e ad ogni livello. Per questo combattiamo le rendite corporative, la gerontocrazia, il nepotismo, che bloccano l’innovazione, ritardano l’assunzione di responsabilità da parte dei giovani, mortificano e sprecano i migliori talenti del nostro paese. Per questo ci battiamo perché si affermi il principio di responsabilità, in base al quale il primario ospedaliero incapace, il dirigente pubblico inefficiente, lʹimprenditore che non è in grado di stare correttamente sul mercato, il lavoratore dipendente inoperoso, devono essere adeguatamente sanzionati e fare un passo indietro, a vantaggio di persone più meritevoli e capaci. Per questo non smetteremo mai di indignarci di fronte alla pervicace mancanza di fiducia nella capacità di pensiero e di progetto delle donne, avvertibile in tutti i settori della società, dal lavoro alla vita privata. Su questo tema colpisce la distanza culturale che ci separa dagli altri paesi europei. Una società che si dica civile deve mutare a fondo l’atteggiamento culturale verso la donna, attuando una rappresentazione mediatica meno arretrata, stereotipata e discriminatoria, attraverso iniziative di formazione, codici deontologici e leggi. Per questo ci impegniamo a dare valore alle differenze, a realizzare compiutamente le pari opportunità, rendendo effettivo quanto finora è rimasto troppo spesso scritto sulla carta. Noi democratici siamo convinti che l’Italia abbia bisogno di una cura straordinaria di concorrenza nei mercati e di efficienza nel settore pubblico. Una cura necessaria sia per liberare le energie che servono a rilanciare lo sviluppo, sia per promuovere un maggior riconoscimento del merito, una più forte mobilità sociale, una più avanzata uguaglianza delle opportunità. Più concorrenza, anzitutto. Le imprese non devono essere assistite, protette o guidate, ciò che le deresponsabilizza e le espone a rapporti opachi con la politica. Hanno bisogno di buoni servizi, di energia a costi ragionevoli, di un carico fiscale non superiore a quello degli altri paesi europei, di reti infrastrutturali moderne, siano esse pubbliche o private. E di sanzioni efficaci in caso di abuso di posizione dominante o di altri comportamenti illeciti. L’Italia ha anche bisogno di una pubblica amministrazione più efficiente, che produca da un lato migliori servizi per le imprese e renda effettivi i diritti dei cittadini, specie di quelli con minori risorse e capacità
di relazione; dall’altro consenta di recuperare le grandi capacità di lavoro esistenti nel settore pubblico, oggi mortificate dalle intrusioni della politica, dal mancato riconoscimento dei meriti, dall’assenza di sanzioni per chi non si impegna.
Ma vogliamo anche che il nostro diventi un Paese più giusto, in cui il benessere sia diffuso. Siamo convinti che senza coesione non c’è sviluppo. Per questo non smetteremo mai di lottare per l’uguaglianza, contro la povertà e l’emarginazione.
Per noi ogni persona ha diritto ad una buona formazione, alle cure migliori, ad un reddito adeguato.
Per noi il lavoro è il cardine di una vita attiva e autonoma, strumento di realizzazione e di liberazione dal bisogno. Pensiamo ai lavori al plurale, a quello nella produzione e nei servizi, al lavoro di cura e a quello volontario; al lavoro che assorbe, che manca, che si perde e diventa troppo spesso dramma umano e familiare.
L’impegno per una piena e buona occupazione è un cardine della nostra azione. Riteniamo importante promuovere tutti i lavori, anche nelle forme nuove, flessibili e autonome; ma vogliamo che la flessibilità non sia pagata con la precarietà e con le intollerabili insicurezze di oggi. Vogliamo tagliare le convenienze al lavoro nero e sommerso, che produce sfruttamento e favorisce la piaga intollerabile delle «morti bianche». Vogliamo che le tutele non riguardino più solo il posto di lavoro, ma anche la capacità dei lavoratori di stare sul mercato. Non accettiamo che maternità, cura della malattia, studio e riqualificazione siano visti come incidenti deprecabili e non come benefici per la società intera. Per questo assegniamo un ruolo centrale alla formazione di qualità lungo l’intero arco della vita e intendiamo legare i redditi di disoccupazione allo svolgimento di attività formative e alla disponibilità al lavoro. Alla questione salariale che è aperta nel nostro paese, vogliamo ricercare risposte che premino il merito e la fatica. Vogliamo democrazia nei luoghi di lavoro, corrette relazioni sindacali, partecipazione attiva delle lavoratrici e dei lavoratori. Noi democratici vogliamo rifondare il nostro stato sociale, che tende a offrire tutele solamente a chi ha o ha avuto un lavoro stabile lasciando gli altri indifesi, in primo luogo i giovani e le donne. Vogliamo ridisegnarlo in funzione del lavoro, delle giovani generazioni e della mobilità sociale. Vogliamo uno stato sociale universalistico, quanto alla platea dei destinatari; selettivo, in base ai bisogni, nelle prestazioni; equo, in base ai redditi familiari, nella contribuzione. Proponiamo un modello attivo di stato sociale che non si limiti a proteggere dai rischi ma stimoli la crescita delle opportunità personali e sociali attraverso servizi di qualità e integrati sul territorio. In particolare, dobbiamo colmare storiche carenze nei servizi per l’infanzia, i disabili e gli anziani non autosufficienti. Sappiamo che la prosperità dell’Europa, e dell’Italia in particolare, dipenderanno dalla nostra capacità di sviluppare conoscenze evolute ed idee creative, di puntare sull’innovazione e la qualità dei nostri prodotti, valorizzando al meglio la straordinaria sedimentazione di competenze, gusto, cultura che proviene dall’ambiente in cui viviamo e dalla nostra storia. Secondo noi si deve quindi investire di più nell’istruzione, nella ricerca e nell’arte, sapendo che la cultura è elemento costitutivo della civiltà europea e non uno mero strumento per la produzione. Vogliamo assicurare un futuro alla cultura italiana favorendo la piena internazionalizzazione della nostra comunità scientifica, spesso segnata da eccessivo provincialismo. Vogliamo rafforzare e sviluppare un forte sistema pubblico di Università e centri di ricerca di eccellenza, affermando il principio dell’autonomia, della competizione tra le strutture sulla base di una valutazione rigorosa dei risultati, del rinnovamento generazionale su basi meritocratiche del corpo docente. Crediamo in una scuola inclusiva, sempre più integrata in un sistema europeo della formazione, che garantisca effettivamente le pari opportunità, che valorizzi le differenze e che contribuisca a costruire un’etica pubblica condivisa intorno ai principi della Costituzione. È nella scuola che si innestano le radici della cultura democratica e civile indispensabile ad una convivenza sempre più multiculturale.
Anche con la scuola si previene il teppismo, la violenza e il razzismo.Per questo vogliamo restituire prestigio agli insegnanti. Vogliamo sostenere un sistema scolastico pubblico integrato (statale e non statale) che garantisca una elevata soglia di qualità ai percorsi formativi ed escluda i diplomifici. Nel campo dell’istruzione superiore vogliamo dare un sostegno effettivo ai «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi», di cui parla la Costituzione, perché possano studiare in centri di eccellenza di livello internazionale ed acquisire quella cultura cosmopolita che serve alla classe dirigente di un grande paese come l’Italia. Vogliamo rilanciare l’industria culturale e della comunicazione italiana, essendo consapevoli che i media oggi costituiscono un settore strategico sia come veicolo di informazione e cultura sia come opportunità di lavoro altamente qualificato. Questo settore nel nostro Paese è oggi più di altri ingessato a causa di una limitata concorrenza, ed in particolare a causa del carattere oligopolistico del mercato pubblicitario e televisivo che va a nostro avviso superato. Non pos10 siamo limitarci ad acquistare contenuti se non vogliamo condannarci da un lato alla subalternità culturale e dall’altro a stare fuori da una delle più importanti industrie globali. Il cinema italiano è stato tra i protagonisti della cultura del Novecento. È noto che il «racconto» è il cuore dell’identità culturale di un Paese e noi vogliamo che sopravviva e si diffonda. È importante, oltre che economicamente strategico, restituirgli il suo ruolo nella cultura internazionale. A questo fine, non pensiamo a pratiche protezionistiche quanto ad incentivi per le coproduzioni europee che siano in grado di stare sul mercato mondiale. Vogliamo che la musica, il teatro e le altre forme di espressione artistica siano parte integrante della formazione culturale e abbiano quindi l’attenzione e il sostegno necessari. Vogliamo reagire allo scadimento della proposta televisiva puntando sulla qualità dei contenuti e l’obiettività dell’informazione, a cominciare dal servizio radiotelevisivo pubblico.
Vogliamo un giornalismo della carta stampata libero da condizionamenti e interessi di impresa estranei all’attività editoriale. Vogliamo promuovere la libera circolazione dei prodotti dell’ingegno, anche attraverso le nuove forme di scambio rese possibili dalle tecnologie informatiche, se prive di fini di lucro, che consideriamo un fondamentale fattore di libertà, di eguaglianza e di diffusione della conoscenza.
Nel progettare l’Italia di domani, non possiamo peraltro dimenticare che essa viene ogni giorno resa migliore dallo spirito di sacrificio di milioni di immigrati. Noi crediamo che siano necessari un sistema di programmazione degli ingressi realistico, ed una politica repressiva efficace per contrastare l’immigrazione illegale, per reprimere i trafficanti e gli sfruttatori, per punire chi si arricchisce con il lavoro nero. Ma vogliamo anche una politica dell’accoglienza che garantisca i diritti dei lavoratori stranieri e che, facendo questo, tuteli nei fatti anche i lavoratori italiani. Vogliamo norme e procedure chiare che consentano agli immigrati onesti di dormire tranquilli, di essere rispettati e fare progetti per la loro vita. Diciamo chiaramente che lo straniero che condivide i valori della nostra Costituzione, che è inserito nel nostro paese e contribuisce alla nostra vita sociale deve avere la possibilità, se lo desidera, di diventare italiano. Diciamo chiaramente che le centinaia di migliaia di bambini stranieri nati in Italia, che frequentano le stesse scuole, parlano la stessa lingua e nutrono gli stessi sogni dei nostri figli sono italiani a tutti gli effetti e come tali devono essere riconosciuti di diritto. Diciamo chiaramente che i talenti di questi bambini non devono andare sprecati, a loro spettano le stesse opportunità di qualsiasi altro bambino italiano.
L’Italia deve irrobustire la cultura e la pratica della legalità. Per questo vogliamo una magistratura responsabile e indipendente, secondo i principi della Costituzione, e una giustizia efficiente, capace di assicurare l’attuazione del diritto in tempi ragionevoli. L’Italia deve liberarsi dalla mafia e dalle forme deviate di esercizio del potere politico e burocratico, che hanno costituito in alcune aree del Paese vere e proprie «strutture di dipendenza», e tengono soggiogata la società civile, distorcendo i rapporti tra cittadini e istituzioni. Vogliamo uno Stato impegnato a difendere i cittadini da tutte le forme di criminalità, anche quelle che sembrano meno gravi, ma colpiscono duramente la libertà e la sicurezza di tante persone, soprattutto le più deboli. Per questo siamo profondamente grati a chi opera nelle forze dell’ordine con professionalità, senso delle istituzioni e spirito di sacrificio. Contro la prepotenza degli interessi particolari, più forte quando le istituzioni sono deboli, vogliamo preservare l’autorevolezza dei poteri pubblici e la loro effettiva capacità di esprimere una efficace funzione redistributiva e regolatrice.
D’altro canto non riteniamo che l’intervento pubblico debba essere necessariamente affidato ad istituzioni statali e siamo convinti dell’importanza della sussidiarietà.
Pensiamo che in molti settori, dalla formazione professionale all’istruzione, dalle politiche sociali alla promozione dello sviluppo economico, alla tutela del nostro patrimonio storico‐culturale e ambientale, l’intervento pubblico, debba valorizzare la voce e il ruolo delle comunità locali, delle imprese, delle associazioni economiche, del volontariato e delle famiglie. Per rafforzare la democrazia abbiamo bisogno di istituzioni adeguate, ma anche di classi dirigenti responsabili, così come di una concezione matura della cittadinanza, alimentata dalla consapevolezza da parte di ciascuno dei propri diritti e dei propri doveri, da un rinnovato senso dello stato, da una chiara, diffusa responsabilità per il bene comune, da una più solida etica pubblica, da un sincero patriottismo costituzionale.
Noi democratici riconosciamo il fondamentale valore della Costituzione come patrimonio comune di tutto il Paese, che il referendum del giugno 2006 ha contribuito a radicare nella coscienza degli italiani. Per rendere le nostre istituzioni democratiche più solide secondo noi è necessario completare la riforma federale dello Stato, attuandone gli aspetti più innovativi, tra cui il federalismo fiscale, e correggendo le disposizioni che si sono rivelate portatrici di conflitti e di incertezze.
Abbiamo bisogno di governi stabili e autorevoli, così come abbiamo bisogno di un Parlamento formato da un numero di componenti più ridotto e più efficiente nelle modalità di lavoro, più rappresentativo non solo dei territori ma anche dei generi. Noi pensiamo ad una Camera titolare dell’indirizzo politico e della funzione legislativa. E ad un Senato che costituisca la sede di rapporti collaborativi tra lo Stato e gli altri soggetti istituzionali che compongono la Repubblica, che concorra paritariamente all’approvazione delle modifiche alla Costituzione e che abbia il potere di richiamo delle leggi approvate dalla Camera, con la funzione di suggerire correzioni e miglioramenti. Vogliamo una legge elettorale per il Parlamento nazionale che stabilisca un chiaro rapporto fra l’eletto, il territorio e gli elettori, contrasti la frammentazione partitica e favorisca l’evoluzione del sistema politico italiano verso una compiuta democrazia dell’alternanza. E pensiamo che alle stesse finalità si debbano ispirare tutte le norme che incidono sulla rappresentanza, come i regolamenti parlamentari o la legislazione sul finanziamento della politica.
Al centro del nostro impegno politico non c’è una astratta ideologia ma ci sono le persone, le loro necessità materiali, intellettuali e spirituali, la loro naturale aspirazione al benessere e alla libertà, i loro diritti. Non ci piacciono invece la cultura, la mentalità e le politiche che puntano solo al vantaggio egoistico e all’arricchimento individuale. I progetti dei singoli, nella società che vogliamo, sono progetti di persone aperte agli altri, che affermano diritti ma anche riconoscono doveri. La società che vogliamo riconosce il valore e coltiva l’etica del lavoro, attraverso cui le persone mettono alla prova la loro responsabilità e i loro talenti. È una società intessuta da un denso reticolo di associazioni no profit e di volontariato. La società che vogliamo riconosce il valore e favorisce la formazione della famiglia, dentro cui le persone mettono alla prova la solidarietà e il reciproco rispetto tra i generi e le generazioni. Abbiamo d’altro canto ben chiari i limiti della politica, non crediamo nella onnipotenza dello Stato, difendiamo la sua laicità, abbiamo a cuore la difesa dei diritti civili e lottiamo contro tutte le discriminazioni. Secondo noi la politica e la legge devono intervenire con cautela sui temi che hanno a che fare con la scienza e la tecnica in riferimento alla vita umana, al suo inizio, alla sua fine e alla sua riproduzione. Si tratta di questioni che vanno acquisendo una rilevanzacentrale nel dibattito pubblico, perché sollevano inediti e radicali interrogativi di natura etica, che sfidano l’intelligenza e la coscienza. Noi riteniamo che solo il dialogo tra diverse visioni religiose, etiche e culturali può portare a soluzioni normative ragionevoli e condivise, rispettose del criterio irrinunciabile della dignità della persona umana e capaci di far incontrare il valore della libertà di ricerca e di scelta col principio per cui non tutto ciò che è tecnicamente possibile è moralmente lecito.
Noi concepiamo la laicità non come unʹideologia antireligiosa e neppure come il luogo di una presunta e illusoria neutralità, ma come rispetto e valorizzazione del pluralismo degli orientamenti culturali e dei convincimenti morali, come riconoscimento della piena cittadinanza – dunque della rilevanza nella sfera pubblica, non solo privata – delle religioni. Le energie morali che scaturiscono dall’esperienza religiosa, quando riconoscono il valore del pluralismo, secondo noi rappresentano infatti un elemento vitale della democrazia. E la laicità dello Stato, così come sancita dalla Costituzione, è garanzia che ogni persona sia rispettata nelle sue convinzioni più profonde e al tempo stesso si possa pienamente integrare nella comunità nazionale. In questo quadro, riteniamo che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica siano stati validamente definiti dalla Costituzione e che ogni sviluppo di quei rapporti debba muoversi nel solco fissato dalla stessa Carta costituzionale.
L’Ulivo, il nostro partito
Per dare corpo a questo progetto serve un partito nuovo, un grande Partito democratico, che rinnovi la politica italiana, il suo costume, i suoi comportamenti.
Un partito che aiuti la società italiana a trovare una sintesi, ad andare oltre i localismi e le chiusure corporative che impoveriscono il nostro presente e mettono a repentaglio il nostro futuro. Serve un grande partito democratico che dia all’Italia governi stabili e un forte impulso riformatore. Per oltre un decennio questo progetto è stato coltivato all’ombra di un sentimento che ci accomuna e di un simbolo che ci rappresenta: l’Ulivo, il simbolo del nostro radicamento nella società italiana e della solidità dei nostri valori, dell’orgoglio di un’Italia operosa, del suo buon vivere, di un’Italia nazioned’Europa nel cuore del Mediterraneo, della nostra aspirazione alla fratellanza e alla pace. Sottoscrivendo questo manifesto ci impegniamo a lavorare con piena convinzione, determinazione e lealtà per fare, a tutti gli effetti, entro la fine del 2008, dell’Ulivo il Partito dei democratici, il nostro partito. Sottoscrivendo questo manifesto, ce ne sentiamo e ne siamo già parte. Sottoscrivere questo manifesto e versare una quota minima, saranno condizioni per partecipare, sulla base del principio «una testa un voto», alla formazione degli organi costituenti, secondo le regole definite in modo consensuale dal coordinamento dell’Ulivo. Ci impegniamo a lavorare con passione per costruire un partito di popolo, radicato e diffuso sul territorio, capace di rendere partecipati e condivisi i processi di riforma. Un partito che riconosca e rispetti il pluralismo delle organizzazioni sociali, che riconosca e rispetti la distinzione tra la sfera dell’intrapresa economica privata e la sfera dell’azione politica. Un partito che riconosca e rispetti il pluralismo delle posizioni che maturano al suo interno ma che rimanga sempre capace di identificare una linea programmatica comune e di portarla avanti in maniera coesa e coerente nelle istituzioni. Ci impegniamo a costruire un partito che, sin dalla sua fase fondativa, sia aperto alla partecipazione di una larga platea di cittadini, ed affidi al loro voto, diretto e segreto, la scelta della leadership.
Un partito capace di parlare al paese con una voce autorevole, che proponga il suo leader alla guida del Governo della nazione, un partito che affidi al metodo delle primarie la scelta delle candidature alle massime cariche di governo nelle Regioni e negli Enti locali. Ci impegniamo a costruire un partito a rete, che preveda molteplici opportunità di adesione e di impegno, che assuma le differenze di genere, di ispirazione culturale, di interesse sociale e professionale. Un partito organizzato su base federale, che preveda una ampia autonomia regionale e territoriale.
Per noi, i democratici, la politica è prima di tutto servizio, è una nobile forma di amore per il prossimo e per il nostro paese. Per questo vogliamo riscattarne il valore, difendendolo dalle degenerazioni affaristiche, dalle manipolazioni delle procedure democratiche, dalle oligarchie inamovibili, restituendo fiducia alle tante persone che sono disposte a impegnarsi per passione civile, in forma volontaria e a proprie spese. Sappiamo che la politica, soprattutto quando implica l’assunzione di responsabilità istituzionali, richiede straordinarie doti di dedizione, talento e competenza. Attitudini che in larga misura maturano nella società e che, dentro un grande partito democratico, devono essere coltivate attraverso l’esperienza, la formazione e la ricerca. Al tempo stesso sappiamo che la politica può essere o apparire, per chi la pratica, fonte di privilegi personali inaccettabili, e può conferire posizioni di potere che si auto‐perpetuano. Noi crediamo quindi che, quando l’attività politica si svolge nelle istituzioni, deve poter godere del massimo rispetto ma deve anche essere sottoposta a stringenti forme di rendiconto, oltre che ad un periodico ricambio. Per questo nel nostro partito la partecipazione alla vita interna, l’assunzione delle candidature e degli incarichi, così come le nomine di competenza politica in enti ed istituzioni pubbliche, saranno regolate da un rigoroso codice deontologico e da norme statutarie che, ad ogni livello organizzativo e in ogni ambito istituzionale, stabiliscano un limite al rinnovo dei mandati. Il Partito democratico fa propria la norma antidiscriminatoria sulla rappresentanza minima del 40% per ciascuno dei due generi.
Siamo convinti che saprà mantenere e migliorare i suoi livelli di vita, se non coltiverà la pretesa illusoria di serrare la porta o di chiudere gli occhi di fronte alle sfide globali, se accetterà di affrontarle insieme all’Europa, se riuscirà a ritrovare slancio, coesione e fiducia.
Ma l’Italia di oggi non è all’altezza delle sue ambizioni e delle sue possibilità. È un paese bloccato, smarrito, che rischia il declino. Il senso civico appare inaridito e il rispetto della legalità è troppe volte umiliato. La classe dirigente è terribilmente invecchiata e quasi esclusivamente maschile. Le donne sono ancora in larga parte escluse dai luoghi della rappresentanza politica. I giovani si scontrano con rendite e privilegi nelle imprese e nelle professioni, nella scuola, nell’università e nella ricerca, nella politica e nella pubblica amministrazione. Guardano con preoccupazione al futuro e faticano a costruirsi una vita autonoma.
Anche per questo, siamo un paese che fa pochi figli. Avvertiamo i segni di un pessimismo diffuso che riguarda la stessa identità dell’Italia come nazione.
L’Italia rischia di tornare ad essere una «espressione geografica», divisa al suo interno tra aree forti, integrate in Europa, ed aree marginali e dipendenti; tra ceti capaci di competere con successo nel mondo globale e vasti strati sociali in sofferenza, di nuovo in lotta con la povertà. A sua volta, la politica è frammentata e rissosa. Si rivela troppo spesso debole nei confronti degli interessi forti ed incapace di svolgere una funzione nazionale. Piuttosto che aiutare l’Italia a rimettersi in moto tutta insieme, finisce per rappresentare o amplificare i particolarismi, attraverso partiti al tempo stesso troppo fragili e troppo invadenti. Diventa concreto così il rischio che si affermino leader populisti, e che nella società prevalgano pulsioni contrarie alla democrazia.
I problemi italiani si collocano d’altro canto in uno scenario più ampio. La democrazia ha vinto i totalitarismi del secolo scorso, ma deve oggi far fronte a sfide di prima grandezza. È spesso prigioniera degli interessi consolidati, più che interprete delle speranze dei deboli. I partiti faticano un po’ ovunque a promuovere la partecipazione e a selezionare una classe dirigente credibile, capace di guardare lontano. Lo sviluppo tecnologico, l’intensificarsi degli scambi e delle comunicazioni rendono la nostra vita più dinamica e più ricca, ci rendono più aperti, ci fanno vivere meglio e più a lungo, accrescono la varietà delle conoscenze a cui possiamo accedere, consentono a un numero crescente di persone, soprattutto tra i giovani, di sentirsi e di essere cittadini del mondo. E cittadini più informati, educati al dialogo con persone di altre culture, costituiscono una preziosa risorsa contro i rischi ricorrenti di chiusure e intolleranze. La democrazia rimane però per lo più relegata nei confini nazionali ed è quindi debole di fronte a fenomeni di dimensione globale come il drammatico deterioramento dell’ambiente e del clima, il terrorismo e i conflitti internazionali, dinamiche demografiche squilibrate, flussi migratori difficilmente controllabili, grandi disuguaglianze tra diverse aree del mondo, abusive ingerenze di interessi economici che minano la sovranità di paesi deboli e ne ostacolano lo sviluppo economico e civile. Il XX secolo, insieme a tante straordinarie conquiste, ci ha consegnato un modello di sviluppo che condanna milioni di persone e intere aree del pianeta alla povertà e che, se non subirà modifiche radicali, renderà la terra invivibile.
Un modello di sviluppo che compromette la libertà delle nuove generazioni e su cui dunque la politica deve intervenire.
Di fronte a sfide così impegnative, tutte le tradizionali famiglie politiche del centrosinistra europeo faticano a trovare, da sole, risposte adeguate. Solo da una comune ricerca può nascere quel pensiero nuovo di cui abbiamo bisogno per capire e governare i grandi cambiamenti nei quali siamo immersi. È per questo che vogliamo costruire un partito nuovo, di donne e di uomini, che superi definitivamente le barriere ideologiche che nel secolo scorso hanno diviso le forze riformatrici e aiuti l’Italia a guardare con fiducia al secolo che è appena iniziato. Con il Partito democratico intendiamo portare a compimento un percorso iniziato da più di dieci anni, con la feconda intuizione dell’Ulivo. Vogliamo anche contribuire a rinnovare la politica europea, dando vita, con il Pse e le altre componenti riformiste, ad un nuovo vasto campo di forze, che colmi la carenza di indirizzo politico sulla scena continentale. E intendiamo concorrere a costruire nel mondo una nuova alleanza tra tutti quelli che vogliono fare della globalizzazione una opportunità per molti piuttosto che l’occasione per rafforzare il potere e la ricchezza di pochi.
Ci riconosciamo nei valori di libertà, uguaglianza, solidarietà, pace, dignità della persona che ispirano la Costituzione repubblicana e nell’impegno a farli vivere in Europa e nel mondo. Questi valori discendono dai molti affluenti della cultura democratica europea. Hanno le loro radici più profonde nel cristianesimo, nell’illuminismo e nel loro complesso e sofferto rapporto. Traggono alimento sia dal pensiero politico liberale, sia da quello socialista, sia da quello cattolico democratico. Sono maturati nella dialettica tra queste diverse tradizioni e dal confronto con le sfide proposte dalle culture ambientalista, dei diritti civili e della libertà femminile, oltre che nella condanna delle ideologie e dei regimi totalitari del novecento. Sono anche frutto di una lunga sequenza di conflitti, basati su appartenenze religiose o di classe, e di tragici errori. Oggi possiamo considerare alle nostre spalle quei conflitti e quegli errori. Oggi sono i valori che ci uniscono e gli obiettivi comuni che intendiamo realizzare a definire la nostra identità politica. Per questo, oggi, noi, i democratici, possiamo proporre, assieme, un progetto forte e credibile per rinnovare l’Italia e costruire l’unità dell’Europa.
L’Italia, una nazione d’Europa
Noi democratici pensiamo l’Italia come una grande nazione d’Europa. Una comunità culturale e politica fondata sui valori democratici della Costituzione e sulla capacità di arricchire le proprie radici nell’incontro e nel dialogo con altre culture e altri popoli. Noi democratici vogliamo l’unità dell’Europa. Un’Europa politica, dotata di una sua Costituzione, e non un semplice mercato comune.
Un’Europa capace di promuovere il proprio sviluppo e di valorizzare il proprio modello sociale. Un’Europa che favorisca l’autogoverno responsabile delle sue comunità e l’unificazione della sua società civile intorno ai principi della democrazia,
del dialogo culturale, della partecipazione e dell’inclusione. Un’Europa capace di parlare con una voce sola sulla scena internazionale e di dare alla imprescindibile solidarietà transatlantica con gli Stati Uniti d’America un carattere paritario. Un’Europa impegnata, in primo luogo insieme alle altre grandi democrazie, nella costruzione di un ordine mondiale fondato su istituzioni multilaterali. Un’Europa consapevole che ciò è condizione per combattere efficacemente le povertà, salvaguardare gli equilibri ambientali sulla linea già espressa con gli accordi di Kyoto, promuovere la democrazia, i diritti umani e il dialogo tra le culture, rifiutando la logica dello «scontro di civiltà». Un’Europa potenza civile, che sappia, anche con una comune politica di difesa, dare il proprio contributo per garantire e preservare la pace nel mondo e combattere il terrorismo fondamentalista con la forza e gli strumenti della legalità internazionale.
È interesse nazionale dell’Italia valorizzare, in Europa, la sua vocazione mediterranea, tanto più a seguito dell’impetuoso sviluppo dell’Asia. Come principale proiezione dell’Europa nel Mediterraneo, l’Italia può svolgere una funzione politica, economica e culturale di primaria importanza, ed affrontare in forme nuove e più efficaci lo storico squilibrio tra il Nord del Paese e il nostro Mezzogiorno.
Noi vogliamo che l’Europa, in particolare grazie all’Italia, operi per trasformare il Mediterraneo da epicentro dei conflitti mondiali a luogo privilegiato del dialogo e della collaborazione tra popoli, culture, religioni, impegnandosi in primo luogo per garantire la sicurezza di Israele e il diritto dei palestinesi ad uno stato pacifico e democratico, per favorire l’ingresso della Turchia nell’Unione europea, per la stabilizzazione dei Balcani e la loro piena inclusione nella casa comune europea.
Noi vogliamo un’Italia più libera, più giusta e più prospera. Per questo intendiamo partecipare allo sviluppo del modello sociale europeo, rilanciandone i due principi ispiratori di fondo: la valorizzazione dell’iniziativa, dei talenti e dei meriti; la promozione di un tessuto sociale solidale, attento al benessere di tutti, in cui nessuno si perda o resti indietro. Vogliamo investire nella produzione e nella diffusione delle conoscenze. Vogliamo un’Italia più capace di fare sistema, di darsi obiettivi condivisi e perseguire un disegno comune. E pensiamo che sia necessario un profondo cambiamento del nostro sistema produttivo, sia incentivando l’innovazione e la crescita delle imprese, sia valorizzando i talenti custoditi nelle pieghe del nostro variegato territorio, nel fitto tessuto delle comunità locali che da sempre alimentano la nascita di nuove imprese e la nostra grande tradizione artigianale. Dobbiamo coltivare il capitale umano, il senso civico e la coesione sociale, senza i quali i nostri distretti industriali non sarebbero mai decollati e la vocazione turistica di tanta parte del nostro paese verrebbe sprecata.
Noi vogliamo un’Italia più unita, più omogenea sul piano economico e sociale. Per questo mettiamo al centro della nostra azione il Mezzogiorno. Dobbiamo assolutamente cogliere, come nazione, l’opportunità di farne il principale raccordo che, attraverso il Mediterraneo, unisca l’Europa e l’Asia. In questo quadro, la predisposizione di adeguate piattaforme logistiche, infrastrutture di comunicazione e reti telematiche, è fondamentale per attrarre stabilmente capitali e iniziative imprenditoriali. A questo fine vogliamo chiamare a raccolta tutte le migliori energie della nazione, per un progetto che richiede ingenti risorse eco7 nomiche, ma soprattutto un impegno straordinario per riformare profondamente il settore pubblico, per combattere inefficienze, favoritismi, corruzione e mettere in moto le grandi riserve di ingegno di cui il Mezzogiorno è ricco. Noi democratici vogliamo che l’Italia dia ad ogni persona uguali opportunità di affermarsi grazie alle proprie capacità, alla creatività, al merito. Vogliamo un paese che premi le persone in base al loro lavoro e alla loro capacità di creare opportunità di lavoro per altri, più che in base alle eredità e alle rendite. La competenza, l’operosità, l’ingegno, la fatica, la capacità di creare imprese competitive devono essere concretamente riconosciute e apprezzate, in tutti i campi e ad ogni livello. Per questo combattiamo le rendite corporative, la gerontocrazia, il nepotismo, che bloccano l’innovazione, ritardano l’assunzione di responsabilità da parte dei giovani, mortificano e sprecano i migliori talenti del nostro paese. Per questo ci battiamo perché si affermi il principio di responsabilità, in base al quale il primario ospedaliero incapace, il dirigente pubblico inefficiente, lʹimprenditore che non è in grado di stare correttamente sul mercato, il lavoratore dipendente inoperoso, devono essere adeguatamente sanzionati e fare un passo indietro, a vantaggio di persone più meritevoli e capaci. Per questo non smetteremo mai di indignarci di fronte alla pervicace mancanza di fiducia nella capacità di pensiero e di progetto delle donne, avvertibile in tutti i settori della società, dal lavoro alla vita privata. Su questo tema colpisce la distanza culturale che ci separa dagli altri paesi europei. Una società che si dica civile deve mutare a fondo l’atteggiamento culturale verso la donna, attuando una rappresentazione mediatica meno arretrata, stereotipata e discriminatoria, attraverso iniziative di formazione, codici deontologici e leggi. Per questo ci impegniamo a dare valore alle differenze, a realizzare compiutamente le pari opportunità, rendendo effettivo quanto finora è rimasto troppo spesso scritto sulla carta. Noi democratici siamo convinti che l’Italia abbia bisogno di una cura straordinaria di concorrenza nei mercati e di efficienza nel settore pubblico. Una cura necessaria sia per liberare le energie che servono a rilanciare lo sviluppo, sia per promuovere un maggior riconoscimento del merito, una più forte mobilità sociale, una più avanzata uguaglianza delle opportunità. Più concorrenza, anzitutto. Le imprese non devono essere assistite, protette o guidate, ciò che le deresponsabilizza e le espone a rapporti opachi con la politica. Hanno bisogno di buoni servizi, di energia a costi ragionevoli, di un carico fiscale non superiore a quello degli altri paesi europei, di reti infrastrutturali moderne, siano esse pubbliche o private. E di sanzioni efficaci in caso di abuso di posizione dominante o di altri comportamenti illeciti. L’Italia ha anche bisogno di una pubblica amministrazione più efficiente, che produca da un lato migliori servizi per le imprese e renda effettivi i diritti dei cittadini, specie di quelli con minori risorse e capacità
di relazione; dall’altro consenta di recuperare le grandi capacità di lavoro esistenti nel settore pubblico, oggi mortificate dalle intrusioni della politica, dal mancato riconoscimento dei meriti, dall’assenza di sanzioni per chi non si impegna.
Ma vogliamo anche che il nostro diventi un Paese più giusto, in cui il benessere sia diffuso. Siamo convinti che senza coesione non c’è sviluppo. Per questo non smetteremo mai di lottare per l’uguaglianza, contro la povertà e l’emarginazione.
Per noi ogni persona ha diritto ad una buona formazione, alle cure migliori, ad un reddito adeguato.
Per noi il lavoro è il cardine di una vita attiva e autonoma, strumento di realizzazione e di liberazione dal bisogno. Pensiamo ai lavori al plurale, a quello nella produzione e nei servizi, al lavoro di cura e a quello volontario; al lavoro che assorbe, che manca, che si perde e diventa troppo spesso dramma umano e familiare.
L’impegno per una piena e buona occupazione è un cardine della nostra azione. Riteniamo importante promuovere tutti i lavori, anche nelle forme nuove, flessibili e autonome; ma vogliamo che la flessibilità non sia pagata con la precarietà e con le intollerabili insicurezze di oggi. Vogliamo tagliare le convenienze al lavoro nero e sommerso, che produce sfruttamento e favorisce la piaga intollerabile delle «morti bianche». Vogliamo che le tutele non riguardino più solo il posto di lavoro, ma anche la capacità dei lavoratori di stare sul mercato. Non accettiamo che maternità, cura della malattia, studio e riqualificazione siano visti come incidenti deprecabili e non come benefici per la società intera. Per questo assegniamo un ruolo centrale alla formazione di qualità lungo l’intero arco della vita e intendiamo legare i redditi di disoccupazione allo svolgimento di attività formative e alla disponibilità al lavoro. Alla questione salariale che è aperta nel nostro paese, vogliamo ricercare risposte che premino il merito e la fatica. Vogliamo democrazia nei luoghi di lavoro, corrette relazioni sindacali, partecipazione attiva delle lavoratrici e dei lavoratori. Noi democratici vogliamo rifondare il nostro stato sociale, che tende a offrire tutele solamente a chi ha o ha avuto un lavoro stabile lasciando gli altri indifesi, in primo luogo i giovani e le donne. Vogliamo ridisegnarlo in funzione del lavoro, delle giovani generazioni e della mobilità sociale. Vogliamo uno stato sociale universalistico, quanto alla platea dei destinatari; selettivo, in base ai bisogni, nelle prestazioni; equo, in base ai redditi familiari, nella contribuzione. Proponiamo un modello attivo di stato sociale che non si limiti a proteggere dai rischi ma stimoli la crescita delle opportunità personali e sociali attraverso servizi di qualità e integrati sul territorio. In particolare, dobbiamo colmare storiche carenze nei servizi per l’infanzia, i disabili e gli anziani non autosufficienti. Sappiamo che la prosperità dell’Europa, e dell’Italia in particolare, dipenderanno dalla nostra capacità di sviluppare conoscenze evolute ed idee creative, di puntare sull’innovazione e la qualità dei nostri prodotti, valorizzando al meglio la straordinaria sedimentazione di competenze, gusto, cultura che proviene dall’ambiente in cui viviamo e dalla nostra storia. Secondo noi si deve quindi investire di più nell’istruzione, nella ricerca e nell’arte, sapendo che la cultura è elemento costitutivo della civiltà europea e non uno mero strumento per la produzione. Vogliamo assicurare un futuro alla cultura italiana favorendo la piena internazionalizzazione della nostra comunità scientifica, spesso segnata da eccessivo provincialismo. Vogliamo rafforzare e sviluppare un forte sistema pubblico di Università e centri di ricerca di eccellenza, affermando il principio dell’autonomia, della competizione tra le strutture sulla base di una valutazione rigorosa dei risultati, del rinnovamento generazionale su basi meritocratiche del corpo docente. Crediamo in una scuola inclusiva, sempre più integrata in un sistema europeo della formazione, che garantisca effettivamente le pari opportunità, che valorizzi le differenze e che contribuisca a costruire un’etica pubblica condivisa intorno ai principi della Costituzione. È nella scuola che si innestano le radici della cultura democratica e civile indispensabile ad una convivenza sempre più multiculturale.
Anche con la scuola si previene il teppismo, la violenza e il razzismo.Per questo vogliamo restituire prestigio agli insegnanti. Vogliamo sostenere un sistema scolastico pubblico integrato (statale e non statale) che garantisca una elevata soglia di qualità ai percorsi formativi ed escluda i diplomifici. Nel campo dell’istruzione superiore vogliamo dare un sostegno effettivo ai «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi», di cui parla la Costituzione, perché possano studiare in centri di eccellenza di livello internazionale ed acquisire quella cultura cosmopolita che serve alla classe dirigente di un grande paese come l’Italia. Vogliamo rilanciare l’industria culturale e della comunicazione italiana, essendo consapevoli che i media oggi costituiscono un settore strategico sia come veicolo di informazione e cultura sia come opportunità di lavoro altamente qualificato. Questo settore nel nostro Paese è oggi più di altri ingessato a causa di una limitata concorrenza, ed in particolare a causa del carattere oligopolistico del mercato pubblicitario e televisivo che va a nostro avviso superato. Non pos10 siamo limitarci ad acquistare contenuti se non vogliamo condannarci da un lato alla subalternità culturale e dall’altro a stare fuori da una delle più importanti industrie globali. Il cinema italiano è stato tra i protagonisti della cultura del Novecento. È noto che il «racconto» è il cuore dell’identità culturale di un Paese e noi vogliamo che sopravviva e si diffonda. È importante, oltre che economicamente strategico, restituirgli il suo ruolo nella cultura internazionale. A questo fine, non pensiamo a pratiche protezionistiche quanto ad incentivi per le coproduzioni europee che siano in grado di stare sul mercato mondiale. Vogliamo che la musica, il teatro e le altre forme di espressione artistica siano parte integrante della formazione culturale e abbiano quindi l’attenzione e il sostegno necessari. Vogliamo reagire allo scadimento della proposta televisiva puntando sulla qualità dei contenuti e l’obiettività dell’informazione, a cominciare dal servizio radiotelevisivo pubblico.
Vogliamo un giornalismo della carta stampata libero da condizionamenti e interessi di impresa estranei all’attività editoriale. Vogliamo promuovere la libera circolazione dei prodotti dell’ingegno, anche attraverso le nuove forme di scambio rese possibili dalle tecnologie informatiche, se prive di fini di lucro, che consideriamo un fondamentale fattore di libertà, di eguaglianza e di diffusione della conoscenza.
Nel progettare l’Italia di domani, non possiamo peraltro dimenticare che essa viene ogni giorno resa migliore dallo spirito di sacrificio di milioni di immigrati. Noi crediamo che siano necessari un sistema di programmazione degli ingressi realistico, ed una politica repressiva efficace per contrastare l’immigrazione illegale, per reprimere i trafficanti e gli sfruttatori, per punire chi si arricchisce con il lavoro nero. Ma vogliamo anche una politica dell’accoglienza che garantisca i diritti dei lavoratori stranieri e che, facendo questo, tuteli nei fatti anche i lavoratori italiani. Vogliamo norme e procedure chiare che consentano agli immigrati onesti di dormire tranquilli, di essere rispettati e fare progetti per la loro vita. Diciamo chiaramente che lo straniero che condivide i valori della nostra Costituzione, che è inserito nel nostro paese e contribuisce alla nostra vita sociale deve avere la possibilità, se lo desidera, di diventare italiano. Diciamo chiaramente che le centinaia di migliaia di bambini stranieri nati in Italia, che frequentano le stesse scuole, parlano la stessa lingua e nutrono gli stessi sogni dei nostri figli sono italiani a tutti gli effetti e come tali devono essere riconosciuti di diritto. Diciamo chiaramente che i talenti di questi bambini non devono andare sprecati, a loro spettano le stesse opportunità di qualsiasi altro bambino italiano.
L’Italia deve irrobustire la cultura e la pratica della legalità. Per questo vogliamo una magistratura responsabile e indipendente, secondo i principi della Costituzione, e una giustizia efficiente, capace di assicurare l’attuazione del diritto in tempi ragionevoli. L’Italia deve liberarsi dalla mafia e dalle forme deviate di esercizio del potere politico e burocratico, che hanno costituito in alcune aree del Paese vere e proprie «strutture di dipendenza», e tengono soggiogata la società civile, distorcendo i rapporti tra cittadini e istituzioni. Vogliamo uno Stato impegnato a difendere i cittadini da tutte le forme di criminalità, anche quelle che sembrano meno gravi, ma colpiscono duramente la libertà e la sicurezza di tante persone, soprattutto le più deboli. Per questo siamo profondamente grati a chi opera nelle forze dell’ordine con professionalità, senso delle istituzioni e spirito di sacrificio. Contro la prepotenza degli interessi particolari, più forte quando le istituzioni sono deboli, vogliamo preservare l’autorevolezza dei poteri pubblici e la loro effettiva capacità di esprimere una efficace funzione redistributiva e regolatrice.
D’altro canto non riteniamo che l’intervento pubblico debba essere necessariamente affidato ad istituzioni statali e siamo convinti dell’importanza della sussidiarietà.
Pensiamo che in molti settori, dalla formazione professionale all’istruzione, dalle politiche sociali alla promozione dello sviluppo economico, alla tutela del nostro patrimonio storico‐culturale e ambientale, l’intervento pubblico, debba valorizzare la voce e il ruolo delle comunità locali, delle imprese, delle associazioni economiche, del volontariato e delle famiglie. Per rafforzare la democrazia abbiamo bisogno di istituzioni adeguate, ma anche di classi dirigenti responsabili, così come di una concezione matura della cittadinanza, alimentata dalla consapevolezza da parte di ciascuno dei propri diritti e dei propri doveri, da un rinnovato senso dello stato, da una chiara, diffusa responsabilità per il bene comune, da una più solida etica pubblica, da un sincero patriottismo costituzionale.
Noi democratici riconosciamo il fondamentale valore della Costituzione come patrimonio comune di tutto il Paese, che il referendum del giugno 2006 ha contribuito a radicare nella coscienza degli italiani. Per rendere le nostre istituzioni democratiche più solide secondo noi è necessario completare la riforma federale dello Stato, attuandone gli aspetti più innovativi, tra cui il federalismo fiscale, e correggendo le disposizioni che si sono rivelate portatrici di conflitti e di incertezze.
Abbiamo bisogno di governi stabili e autorevoli, così come abbiamo bisogno di un Parlamento formato da un numero di componenti più ridotto e più efficiente nelle modalità di lavoro, più rappresentativo non solo dei territori ma anche dei generi. Noi pensiamo ad una Camera titolare dell’indirizzo politico e della funzione legislativa. E ad un Senato che costituisca la sede di rapporti collaborativi tra lo Stato e gli altri soggetti istituzionali che compongono la Repubblica, che concorra paritariamente all’approvazione delle modifiche alla Costituzione e che abbia il potere di richiamo delle leggi approvate dalla Camera, con la funzione di suggerire correzioni e miglioramenti. Vogliamo una legge elettorale per il Parlamento nazionale che stabilisca un chiaro rapporto fra l’eletto, il territorio e gli elettori, contrasti la frammentazione partitica e favorisca l’evoluzione del sistema politico italiano verso una compiuta democrazia dell’alternanza. E pensiamo che alle stesse finalità si debbano ispirare tutte le norme che incidono sulla rappresentanza, come i regolamenti parlamentari o la legislazione sul finanziamento della politica.
Al centro del nostro impegno politico non c’è una astratta ideologia ma ci sono le persone, le loro necessità materiali, intellettuali e spirituali, la loro naturale aspirazione al benessere e alla libertà, i loro diritti. Non ci piacciono invece la cultura, la mentalità e le politiche che puntano solo al vantaggio egoistico e all’arricchimento individuale. I progetti dei singoli, nella società che vogliamo, sono progetti di persone aperte agli altri, che affermano diritti ma anche riconoscono doveri. La società che vogliamo riconosce il valore e coltiva l’etica del lavoro, attraverso cui le persone mettono alla prova la loro responsabilità e i loro talenti. È una società intessuta da un denso reticolo di associazioni no profit e di volontariato. La società che vogliamo riconosce il valore e favorisce la formazione della famiglia, dentro cui le persone mettono alla prova la solidarietà e il reciproco rispetto tra i generi e le generazioni. Abbiamo d’altro canto ben chiari i limiti della politica, non crediamo nella onnipotenza dello Stato, difendiamo la sua laicità, abbiamo a cuore la difesa dei diritti civili e lottiamo contro tutte le discriminazioni. Secondo noi la politica e la legge devono intervenire con cautela sui temi che hanno a che fare con la scienza e la tecnica in riferimento alla vita umana, al suo inizio, alla sua fine e alla sua riproduzione. Si tratta di questioni che vanno acquisendo una rilevanzacentrale nel dibattito pubblico, perché sollevano inediti e radicali interrogativi di natura etica, che sfidano l’intelligenza e la coscienza. Noi riteniamo che solo il dialogo tra diverse visioni religiose, etiche e culturali può portare a soluzioni normative ragionevoli e condivise, rispettose del criterio irrinunciabile della dignità della persona umana e capaci di far incontrare il valore della libertà di ricerca e di scelta col principio per cui non tutto ciò che è tecnicamente possibile è moralmente lecito.
Noi concepiamo la laicità non come unʹideologia antireligiosa e neppure come il luogo di una presunta e illusoria neutralità, ma come rispetto e valorizzazione del pluralismo degli orientamenti culturali e dei convincimenti morali, come riconoscimento della piena cittadinanza – dunque della rilevanza nella sfera pubblica, non solo privata – delle religioni. Le energie morali che scaturiscono dall’esperienza religiosa, quando riconoscono il valore del pluralismo, secondo noi rappresentano infatti un elemento vitale della democrazia. E la laicità dello Stato, così come sancita dalla Costituzione, è garanzia che ogni persona sia rispettata nelle sue convinzioni più profonde e al tempo stesso si possa pienamente integrare nella comunità nazionale. In questo quadro, riteniamo che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica siano stati validamente definiti dalla Costituzione e che ogni sviluppo di quei rapporti debba muoversi nel solco fissato dalla stessa Carta costituzionale.
L’Ulivo, il nostro partito
Per dare corpo a questo progetto serve un partito nuovo, un grande Partito democratico, che rinnovi la politica italiana, il suo costume, i suoi comportamenti.
Un partito che aiuti la società italiana a trovare una sintesi, ad andare oltre i localismi e le chiusure corporative che impoveriscono il nostro presente e mettono a repentaglio il nostro futuro. Serve un grande partito democratico che dia all’Italia governi stabili e un forte impulso riformatore. Per oltre un decennio questo progetto è stato coltivato all’ombra di un sentimento che ci accomuna e di un simbolo che ci rappresenta: l’Ulivo, il simbolo del nostro radicamento nella società italiana e della solidità dei nostri valori, dell’orgoglio di un’Italia operosa, del suo buon vivere, di un’Italia nazioned’Europa nel cuore del Mediterraneo, della nostra aspirazione alla fratellanza e alla pace. Sottoscrivendo questo manifesto ci impegniamo a lavorare con piena convinzione, determinazione e lealtà per fare, a tutti gli effetti, entro la fine del 2008, dell’Ulivo il Partito dei democratici, il nostro partito. Sottoscrivendo questo manifesto, ce ne sentiamo e ne siamo già parte. Sottoscrivere questo manifesto e versare una quota minima, saranno condizioni per partecipare, sulla base del principio «una testa un voto», alla formazione degli organi costituenti, secondo le regole definite in modo consensuale dal coordinamento dell’Ulivo. Ci impegniamo a lavorare con passione per costruire un partito di popolo, radicato e diffuso sul territorio, capace di rendere partecipati e condivisi i processi di riforma. Un partito che riconosca e rispetti il pluralismo delle organizzazioni sociali, che riconosca e rispetti la distinzione tra la sfera dell’intrapresa economica privata e la sfera dell’azione politica. Un partito che riconosca e rispetti il pluralismo delle posizioni che maturano al suo interno ma che rimanga sempre capace di identificare una linea programmatica comune e di portarla avanti in maniera coesa e coerente nelle istituzioni. Ci impegniamo a costruire un partito che, sin dalla sua fase fondativa, sia aperto alla partecipazione di una larga platea di cittadini, ed affidi al loro voto, diretto e segreto, la scelta della leadership.
Un partito capace di parlare al paese con una voce autorevole, che proponga il suo leader alla guida del Governo della nazione, un partito che affidi al metodo delle primarie la scelta delle candidature alle massime cariche di governo nelle Regioni e negli Enti locali. Ci impegniamo a costruire un partito a rete, che preveda molteplici opportunità di adesione e di impegno, che assuma le differenze di genere, di ispirazione culturale, di interesse sociale e professionale. Un partito organizzato su base federale, che preveda una ampia autonomia regionale e territoriale.
Per noi, i democratici, la politica è prima di tutto servizio, è una nobile forma di amore per il prossimo e per il nostro paese. Per questo vogliamo riscattarne il valore, difendendolo dalle degenerazioni affaristiche, dalle manipolazioni delle procedure democratiche, dalle oligarchie inamovibili, restituendo fiducia alle tante persone che sono disposte a impegnarsi per passione civile, in forma volontaria e a proprie spese. Sappiamo che la politica, soprattutto quando implica l’assunzione di responsabilità istituzionali, richiede straordinarie doti di dedizione, talento e competenza. Attitudini che in larga misura maturano nella società e che, dentro un grande partito democratico, devono essere coltivate attraverso l’esperienza, la formazione e la ricerca. Al tempo stesso sappiamo che la politica può essere o apparire, per chi la pratica, fonte di privilegi personali inaccettabili, e può conferire posizioni di potere che si auto‐perpetuano. Noi crediamo quindi che, quando l’attività politica si svolge nelle istituzioni, deve poter godere del massimo rispetto ma deve anche essere sottoposta a stringenti forme di rendiconto, oltre che ad un periodico ricambio. Per questo nel nostro partito la partecipazione alla vita interna, l’assunzione delle candidature e degli incarichi, così come le nomine di competenza politica in enti ed istituzioni pubbliche, saranno regolate da un rigoroso codice deontologico e da norme statutarie che, ad ogni livello organizzativo e in ogni ambito istituzionale, stabiliscano un limite al rinnovo dei mandati. Il Partito democratico fa propria la norma antidiscriminatoria sulla rappresentanza minima del 40% per ciascuno dei due generi.
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