Nel Pd si apre la Terza Via
Ed eccola, è arrivata la Terza Via per il Pd. Anche se per la verità sarebbe la primissima, la via originaria, quella che coltivavano oltre dieci anni fa Prodi, Parisi, Veltroni. La fa intravedere (in maniera un po’ vaga in verità) Sergio Chiamparino. Ne scrivono in diversi su Europa, sul Foglio. Proverà a farne suo manifesto politico la mozione di Ignazio Marino, a convegno questo fine settimana. Ma la teoria più compiuta la propone Goffredo Bettini sul Riformista, e Bettini ha sicuramente moltissimi errori da farsi perdonare però rimane una delle teste migliori del centrosinistra.
Tutto si deve all’avventura parallela di Nichi Vendola e di Emma Bonino. Che sono accomunati non dalla prospettiva di una rinascita della sinistra radicale/antagonista (evento fantapolitico che nulla ha a che vedere con quanto accade in Puglia e nel Lazio), bensì dal dato mascroscopico evidenziato ieri su Europa da Elisabetta Ambrosi: entrambi sono diventati immediatamente catalizzatori delle speranze, delle passioni e del consenso della stragrande maggioranza di iscritti, militanti ed elettori del Pd. Pur senza essere, né Vendola né Bonino, non solo iscritti al Pd, ma neanche tanto amici visti numerosi precedenti a dir poco conflittuali.
La suggestione che il successo della coppia Vendola-Bonino fa venire in mente è quella di un maxi-Pd (Nuovo Ulivo, lo chiama Chiamparino, Grande Pd lo chiamò Giuliano Ferrara tempo fa) che abbatta gli steccati dei partiti fondatori del 2007 e si espanda a rappresentare l’intera area del centrosinistra, travolgendo naturalmente anche la cristalleria degli attuali rapporti di forza interni fra correnti e nomenklature: cocci peraltro già tutti in terra, dopo le fuoriuscite più o meno eccellenti, la frammentazione di Area democratica, il ruolo di battitrice libera di Rosy Bindi, la dimostrata impossibilità per Bersani di tenere le propaggini territoriali sotto controllo, la sua prevedibile autonomizzazione rispetto a D’Alema...
A sentire di molti, nel Pd di oggi non c’è molto da conservare dunque si può gettare nuovamente un cuore oltre l’ostacolo. Sarà.
A noi non pare tanto facile.
Il fatto è che la suggestione di Bettini, Chiamparino, Marino eccetera non travolge solo la chincaglieria: travolge la linea politica sulla quale Bersani ha stravinto primarie e congresso.
Noi chiamiamo quest’ultima ipotesi Terza Via – in sfregio alla scaramanzia – perché un Pd così allargato non era né il Pd di Veltroni (che forse avrebbe voluto farlo in questo modo, ma venne chiamato alla segreteria in un contesto molto diverso, rigido, post-fusione Ds-Margherita) né tanto meno il Pd di Bersani.
Che casomai è o vorrebbe essere l’esatto contrario: un partito più compatto nell’identità, di ambizioni proprie più ridotte, che lascia spazio a sinistra e al centro a forze autonome, diverse da sé e coalizionabili in un “nuovo centrosinistra”.
Se questa idea di sovvertire dopo appena quattro mesi l’esito politico del congresso può prendere piede, è perché – come ha scritto anche Europa due giorni fa – la logica coalizionale di Bersani e D’Alema ha mostrato gravi limiti al primo impatto con la realtà, in questa fase di preparazione alle Regionali. Mettere insieme sigle e siglette, non c’è niente da fare, non funziona.
Appena sulla scena si sono affacciati personaggi con una dote personale di credibilità e consenso (Vendola, Bonino, ma anche De Luca), il risiko delle geometrie variabili è saltato e tutti i partiti si sono dovuti regolare di conseguenza: non è ancora venuto il momento della loro ripristinata centralità, semmai verrà. D’Alema non ha smesso di dover soffrire per colpa di quelli che chiama cacicchi.
Dopo le Regionali si spalancano tre anni senza elezioni, destinati a un grande lavorìo di riassetto del sistema (come si capisce anche dall’impegnativo articolo di rancesco Rutelli che pubblichiamo oggi).
Riaprire il congresso del Pd su questi temi di fondo sarebbe molto diverso che consumarlo nella spirale di ritorsioni e vendette fra dalemiani, veltroniani, fassiniani, popolari di ogni rito, rutelliani orfani.
Per evitare che questo triste spettacolo si ripresenti, serve a poco la risposta un po’ burocratica e parecchio retorica data ieri a Bettini da Stefano Fassina (perché agli operai dell’Eutelia, chiamati inopinatamente in causa, non dovrebbe essere utile avere a difenderli un Pd più forte e rappresentativo dell’attuale?).
Casomai lo stesso Bersani – che è persona pragmatica e nient’affatto ideologica – potrebbe decidere che di Prodi valga la pena di mutuare non solo l’understatement comunicativo ma anche le ambizioni strategiche, soprattutto ora che personaggi importanti ma ingombranti sembrano (e sono) fuori gioco.
Scenario stimolante però, confessiamolo, difficile.
Anche perché non sarebbe solo il Pd a dover dimostrare una insospettabile verve rifondativa: radicali, vendoliani, verdi, tanti altri dovrebbero abbandonare le logiche ristrette nelle quali si sono sempre mossi. E anzi sarebbe per loro particolarmente difficile farlo se le avventure personali di Vendola e Bonino dovessero andar bene.
Vedremo. Quel che è certo, una volta di più, è che l’avvio della campagna elettorale regionale restituisce l’immagine arcinota di un popolo di centrosinistra con un fortissimo senso di appartenenza unitaria, del tutto indifferente alle tattiche di partito e pronto, appena gliene si dà l’occasione, a capovolgerle. C’è una saggezza di fondo, in questo imperturbabile ulivismo popolare (non sapremmo come altrimenti chiamarlo), con la quale prima o poi toccherà far pace.
Tutto si deve all’avventura parallela di Nichi Vendola e di Emma Bonino. Che sono accomunati non dalla prospettiva di una rinascita della sinistra radicale/antagonista (evento fantapolitico che nulla ha a che vedere con quanto accade in Puglia e nel Lazio), bensì dal dato mascroscopico evidenziato ieri su Europa da Elisabetta Ambrosi: entrambi sono diventati immediatamente catalizzatori delle speranze, delle passioni e del consenso della stragrande maggioranza di iscritti, militanti ed elettori del Pd. Pur senza essere, né Vendola né Bonino, non solo iscritti al Pd, ma neanche tanto amici visti numerosi precedenti a dir poco conflittuali.
La suggestione che il successo della coppia Vendola-Bonino fa venire in mente è quella di un maxi-Pd (Nuovo Ulivo, lo chiama Chiamparino, Grande Pd lo chiamò Giuliano Ferrara tempo fa) che abbatta gli steccati dei partiti fondatori del 2007 e si espanda a rappresentare l’intera area del centrosinistra, travolgendo naturalmente anche la cristalleria degli attuali rapporti di forza interni fra correnti e nomenklature: cocci peraltro già tutti in terra, dopo le fuoriuscite più o meno eccellenti, la frammentazione di Area democratica, il ruolo di battitrice libera di Rosy Bindi, la dimostrata impossibilità per Bersani di tenere le propaggini territoriali sotto controllo, la sua prevedibile autonomizzazione rispetto a D’Alema...
A sentire di molti, nel Pd di oggi non c’è molto da conservare dunque si può gettare nuovamente un cuore oltre l’ostacolo. Sarà.
A noi non pare tanto facile.
Il fatto è che la suggestione di Bettini, Chiamparino, Marino eccetera non travolge solo la chincaglieria: travolge la linea politica sulla quale Bersani ha stravinto primarie e congresso.
Noi chiamiamo quest’ultima ipotesi Terza Via – in sfregio alla scaramanzia – perché un Pd così allargato non era né il Pd di Veltroni (che forse avrebbe voluto farlo in questo modo, ma venne chiamato alla segreteria in un contesto molto diverso, rigido, post-fusione Ds-Margherita) né tanto meno il Pd di Bersani.
Che casomai è o vorrebbe essere l’esatto contrario: un partito più compatto nell’identità, di ambizioni proprie più ridotte, che lascia spazio a sinistra e al centro a forze autonome, diverse da sé e coalizionabili in un “nuovo centrosinistra”.
Se questa idea di sovvertire dopo appena quattro mesi l’esito politico del congresso può prendere piede, è perché – come ha scritto anche Europa due giorni fa – la logica coalizionale di Bersani e D’Alema ha mostrato gravi limiti al primo impatto con la realtà, in questa fase di preparazione alle Regionali. Mettere insieme sigle e siglette, non c’è niente da fare, non funziona.
Appena sulla scena si sono affacciati personaggi con una dote personale di credibilità e consenso (Vendola, Bonino, ma anche De Luca), il risiko delle geometrie variabili è saltato e tutti i partiti si sono dovuti regolare di conseguenza: non è ancora venuto il momento della loro ripristinata centralità, semmai verrà. D’Alema non ha smesso di dover soffrire per colpa di quelli che chiama cacicchi.
Dopo le Regionali si spalancano tre anni senza elezioni, destinati a un grande lavorìo di riassetto del sistema (come si capisce anche dall’impegnativo articolo di rancesco Rutelli che pubblichiamo oggi).
Riaprire il congresso del Pd su questi temi di fondo sarebbe molto diverso che consumarlo nella spirale di ritorsioni e vendette fra dalemiani, veltroniani, fassiniani, popolari di ogni rito, rutelliani orfani.
Per evitare che questo triste spettacolo si ripresenti, serve a poco la risposta un po’ burocratica e parecchio retorica data ieri a Bettini da Stefano Fassina (perché agli operai dell’Eutelia, chiamati inopinatamente in causa, non dovrebbe essere utile avere a difenderli un Pd più forte e rappresentativo dell’attuale?).
Casomai lo stesso Bersani – che è persona pragmatica e nient’affatto ideologica – potrebbe decidere che di Prodi valga la pena di mutuare non solo l’understatement comunicativo ma anche le ambizioni strategiche, soprattutto ora che personaggi importanti ma ingombranti sembrano (e sono) fuori gioco.
Scenario stimolante però, confessiamolo, difficile.
Anche perché non sarebbe solo il Pd a dover dimostrare una insospettabile verve rifondativa: radicali, vendoliani, verdi, tanti altri dovrebbero abbandonare le logiche ristrette nelle quali si sono sempre mossi. E anzi sarebbe per loro particolarmente difficile farlo se le avventure personali di Vendola e Bonino dovessero andar bene.
Vedremo. Quel che è certo, una volta di più, è che l’avvio della campagna elettorale regionale restituisce l’immagine arcinota di un popolo di centrosinistra con un fortissimo senso di appartenenza unitaria, del tutto indifferente alle tattiche di partito e pronto, appena gliene si dà l’occasione, a capovolgerle. C’è una saggezza di fondo, in questo imperturbabile ulivismo popolare (non sapremmo come altrimenti chiamarlo), con la quale prima o poi toccherà far pace.
Nessun commento:
Posta un commento