mercoledì 8 luglio 2009

Il 14 luglio alziamo la voce


Memoria insufficiente


Da una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912.
Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali". "Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano purchè le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione".Non ci andava meglio in Svizzera, negli anni ’70 con i leader che scrivevano: “Le mogli e i bambini degli immigrati? Sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle. Che minacciano nello spettro d’una congiuntura lo stesso benessere dei cittadini. Dobbiamo liberarci del fardello». «Dobbiamo respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chiamato per i lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una generazione, dopo il primo smarrimento, si guardano attorno e migliorano la loro posizione sociale. Scalano i posti più comodi, studiano, s’ingegnano: mettono addirittura in crisi la tranquillità dell’operaio svizzero medio, che resta inchiodato al suo sgabello con davanti, magari in poltrona, l’ex guitto italiano».In quegli anni – ieri rispetto alla Storia - in Svizzera c’erano circa 30.000 bambini italiani clandestini, portati di nascosto dai genitori siciliani e veneti, calabresi e lombardi, a dispetto delle rigorose leggi elvetiche contro i ricongiungimenti familiari, genitori terrorizzati dalle denunce dei vicini che raccomandavano perciò ai loro bambini: non fare rumore, non ridere, non giocare, non piangere.Prima degli anni ’50 gli italiani andavano a Bucarest per lavorare nelle fabbriche e nelle miniere e alla scadenza del permesso di soggiorno restavano in Romania, clandestini. Nel 1942 il Ministro dell’Interno fu costretto ad inviare a tutti i Questori una circolare con la quale li si invitava a non far espatriare gli italiani in Romania.In India, nel 1893, il console italiano scriveva a Roma per dire che in quella città tutti quelli che sfruttavano la prostituzione venivano chiamati “italiani”.Tra la prima e la seconda guerra mondiale molti italiani andavano in America con passaporti falsi o biglietti inviati da pseudo parenti italo americani. In realtà una volta sbarcati li attendevano turni di lavoro massacranti perché ripagassero, senza stipendio, il costo di quel viaggio della speranza.Non sono aneddoti. E’ storia, tratta dalla Mostra “Tracce dell’emigrazione parmense e italiana fra il XVI e XX secolo” (Parma, 15 aprile 2009).Gian Antonio Stella, nel suo bellissimo libro “Quando gli albanesi eravamo noi”, ci ricorda che “….Quando si parla d’immigrazione italiana si pensa solo agli ’zii d’America’, arricchiti e vincenti, ma nessuno vuole sapere che la percentuale di analfabeti tra gli italiani immigrati nel 1910 negli USA era del 71% o che gli italiani costituivano la maggioranza degli stranieri arrestati per omicidio” o ancora che il primo attentato nella storia con un’auto imbottita di esplosivo è stato fatto a New York, non da terroristi ma da criminali italiani contro una banda avversaria.Forse ci ricordano che la nostra Terra gira, gira velocemente nello spazio e nel tempo creando nuovi ricchi ed ammassando nuovi poveri. I ruoli si invertono ma i clandestini restano anche se hanno un colore diverso. Fuggono da Paesi in cui l’unica prospettiva è morire per fame o morire per guerre volute da altri. Ed allora questa gente può solo correre, correre, correre impazzita verso il nord, verso il mediterraneo, verso quelli che credono essere orizzonti migliori.http://www.agoravox.it/QUANDO-I-CLANDESTINI-ERAVAMO-NOI,6706.html

Alla cultura democratica europea e ai giornali che la esprimono


Le cose accadute in Italia hanno sempre avuto, nel bene e nel male, una straordinaria influenza sulla intera società europea, dal Rinascimento italiano al fascismo.

Non sempre sono state però conosciute in tempo.

In questo momento c’è una grande attenzione sui giornali europei per alcuni aspetti della crisi che sta investendo il nostro paese, riteniamo, però, un dovere di quanti viviamo in Italia richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica europea su altri aspetti rimasti oscuri. Si tratta di alcuni passaggi della politica e della legislazione italiana che, se non si riuscirà ad impedire, rischiano di sfigurare il volto dell’Europa e di far arretrare la causa dei diritti umani nel mondo intero.

Il governo Berlusconi, agitando il pretesto della sicurezza, ha imposto al Parlamento, di cui ha il pieno controllo, l’adozione di norme discriminatorie nei confronti degli immigrati, quali in Europa non si vedevano dai tempi delle leggi razziali.È stato sostituito il soggetto passivo della discriminazione, non più gli ebrei bensì la popolazione degli immigrati irregolari, che conta centinaia di migliaia di persone; ma non sono stati cambiati gli istituti previsti dalle leggi razziali, come il divieto dei matrimoni misti.

Con tale divieto si impedisce, in ragione della nazionalità, l’esercizio di un diritto fondamentale quale è quello di contrarre matrimonio senza vincoli di etnia o di religione; diritto fondamentale che in tal modo viene sottratto non solo agli stranieri ma agli stessi italiani.Con una norma ancora più lesiva della dignità e della stessa qualità umana, è stato inoltre introdotto il divieto per le donne straniere, in condizioni di irregolarità amministrativa, di riconoscere i figli da loro stesse generati. Pertanto in forza di una tale decisione politica di una maggioranza transeunte, i figli generati dalle madri straniere irregolari diverranno per tutta la vita figli di nessuno, saranno sottratti alle madri e messi nelle mani dello Stato. Neanche il fascismo si era spinto fino a questo punto. Infatti le leggi razziali introdotte da quel regime nel 1938 non privavano le madri ebree dei loro figli, né le costringevano all’aborto per evitare la confisca dei loro bambini da parte dello Stato.

Non ci rivolgeremmo all’opinione pubblica europea se la gravità di queste misure non fosse tale da superare ogni confine nazionale e non richiedesse una reazione responsabile di tutte le persone che credono a una comune umanità. L’Europa non può ammettere che uno dei suoi Paesi fondatori regredisca a livelli primitivi di convivenza, contraddicendo le leggi internazionali e i principi garantisti e di civiltà giuridica su cui si basa la stessa costruzione politica europea.È interesse e onore di tutti noi europei che ciò non accada.

La cultura democratica europea deve prendere coscienza della patologia che viene dall’Italia e mobilitarsi per impedire che possa dilagare in Europa.

A ciascuno la scelta delle forme opportune per manifestare e far valere la propria opposizione.

Andrea Camilleri, Antonio Tabucchi, Dacia Maraini, Dario Fo, Franca Rame, Moni Ovadia, Maurizio Scaparro, Gianni Amelio, Wu MingAderisci anche tu all'appello pubblicato da MicroMega http://www.micromega.net/

Il 14 Luglio non si parla.


L'APPELLO

Aderisci alla giornata di silenzio per la libertà d'informazione on line.
Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da un susseguirsi di iniziative legislative apparentemente estemporanee e dettate dalla fantasia dei singoli parlamentari ma collegate tra loro da una linea di continuità: la volontà della politica di soffocare ogni giorno di più la Rete come strumento di diffusione e di condivisione libera dell’informazione e del sapere. Le disposizioni contenute nel "Decreto Alfano" sulle intercettazioni rientrano all'interno di questa offensiva.
Il cosiddetto "obbligo di rettifica" imposto al gestore di qualsiasi sito informatico (dai blog ai social network come Facebook e Twitter fino a .... ) appare chiaramente come un pretesto, un alibi. I suoi effetti infatti - in termini di burocratizzazione della Rete, di complessità di gestione dell'obbligo in questione, di sanzioni pesantissime per gli utenti - rendono il decreto una nuova legge ammazza-internet.
Rispetto ai tentativi precedenti questo è perfino più insidioso e furbesco, perché anziché censurare direttamente i siti e i blog li mette in condizione di non pubblicare più o di pubblicare molto meno, con una norma che si nasconde dietro una falsa apparenza di responsabilizzazione ma che in realtà ha lo scopo di rendere la vita impossibile a blogger e utenti di siti di condivisione.
I blogger sono già oggi del tutto responsabili, in termini penali, di eventuali reati di ingiuria, diffamazione o altro: non c'è alcun bisogno di introdurre sanzioni insostenibili per i "citizen journalist" se questi non aderiscono alla tortuosa e burocratica imposizione prevista nel Decreto Alfano.
La pluralità dell'informazione, non importa se via internet, sui giornali, attraverso le radio o le tv o qualsiasi altro mezzo, costituisce uno dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino e, probabilmente, quello al quale sono più direttamente connesse la libertà e la democrazia.Con il Decreto Alfano siamo di fronte a un attacco alla libertà di di tutti i media, dal grande giornale al più piccolo blog.
Per questo chiediamo ai blog e ai siti italiani di fare una giornata di silenzio, con un logo che ne spiega le ragioni, nel giorno in cui anche i giornali e le tv tacciono. E' un segnale di tutti quelli che fanno comunicazione che, insieme, dicono al potere: "Non vogliamo farci imbavagliare".Invitiamo quindi tutti i cittadini che hanno un blog o un sito a pubblicare il 14 luglio prossimo questo logo e a tenerlo esposto per l’intera giornata, con un link a questo manifesto. - scarica il logo banner.jpg
Non si tratta di difendere la stampa, la tv, la radio, i giornalisti o la Rete ma di difendere con fermezza la libertà di informazione e con questa il futuro della nostra democrazia.Come è nata l'idea
Blogger e giornalisti-blogger, attraverso uno scambio di telefonate ed e mail, hanno deciso di agire. Per dare un segnale forte attraverso la Rete. Gli Usa hanno eletto la prima volta un presidente di colore grazie alla libera condivisione delle informazioni in Internet. Barack Obama ha creduto nella Rete e sta facendo la differenza con un messaggio forte di cambiamento. In Italia, al contrario, una politica "vecchia" vuole impedire la libertà d'informazione attraverso giornali, siti internet e blog. Con leggi ad personam che sono un attacco alla democrazia.
http://dirittoallarete.ning.com/Come ben sapete stanno cercando di limitare la rete in quanto e' rimasto solo questo mezzo di comunicazione 'libero', e quindi scomodo.
Saremmo gli unici insieme alla Cina e ad alcuni paesi del Sud America ad avere limitazioni nell’uso della rete.
Il 14 Luglio NON SI PARLA per far capire alla gente cosa vuol dire.Chi vuole partecipare non comunichi nemmeno su msn e facebook e lasci come immagine nel profilo il logo che si puo' scaricare dal sito.

lunedì 6 luglio 2009

Il PD esule in casa di Ilvio Diamanti


dA LA REPUBBLICA DEL 10 GIUGNO 2009 PAG. 13
Partito Democratico: dove si perde di più.
Le 15 province con il maggior calo percentuale rispetto al 2008

Crotone -16 %
Ascoli P. -12,6 %
Ancona -12,4 %
Macerata -12,3 %
Fermo -12 %
Chieti -11,7 %
Terni -11,3 %
Teramo -11,3 %
Pescara -11,3 %
Rieti -11,2 %
Taranto -11,1 %
Brindisi -10,6 %
L'Aquila -10,6 %
Lecce -10,4 %
Perugia -10,2 %


Se si esclude la provincia di Crotone commissariata nel dicembre 2008 dal Segretario Regionale per precedenti rilevanti problemi di carattere giudiziario e rilevantissimi problemi organizzativi (il Commissario è Nico Stumpo della Direzione Nazionale) in assoluto le quattro province italiane con la peggiore performance sono marchigiane.


ALTRI INTERESSANTI DATI DISPONIBILI SU (http://www.demos.it/) http://www.demos.it/a00301.php

Questo l’articolo:

MAPPE
Il Pd esule in casa
di ILVO DIAMANTI

· LE TABELLE
Come avviene puntualmente da 15 anni, anche queste elezioni sono state affrontate come un referendum. L'unico ammissibile, in Italia, oggi. Pro o contro Berlusconi. Il quale, a differenza delle ultime occasioni, questa volta ha perduto. E ha condizionato, in questo modo, la lettura del voto. Tuttavia, dalla consultazione esce sconfitto lui, ma non il centrodestra. Non certo la Lega. Ma lo stesso Pdl, per una volta, se l'è cavata meglio del suo leader. Come hanno confermato le elezioni amministrative. Nell'insieme, questa consultazione conferma un profondo mutamento dei rapporti fra politica, società e territorio, che investe entrambi gli schieramenti. Ne forniscono una raffigurazione plastica ed esemplare la Lega e l'Idv. I vincitori di queste elezioni. Non solo perché hanno guadagnato peso elettorale, in valori assoluti e percentuali, rispetto alle precedenti elezioni politiche ed europee. Ma perché, inoltre, si sono rafforzati rispetto agli alleati. Si tratta di partiti molto diversi, ma con alcuni tratti comuni. Anzitutto, i temi che hanno imposto all'agenda politica, in campagna elettorale.
In primo luogo: la sicurezza. Anche se la interpretano in modo alternativo. La Lega: come reazione alla "paura degli altri e del mondo", all'inquietudine prodotta dal cambiamento. È la "Lega degli uomini spaventati", che organizza le ronde: la comunità locale in divisa per difendersi dagli immigrati e dalla criminalità comune. L'Idv, invece, punta sulla domanda di legalità. Rivendica l'eredità della stagione di Tangentopoli, impersonata da Antonio Di Pietro. Sostiene i magistrati. Esercita un'opposizione intransigente. A Berlusconi. A ogni mediazione sui temi della giustizia. Per questo motivo nel 2006 si oppose - unica, non a caso, con la Lega - all'indulto.
Entrambi i partiti usano, in diverso modo e in diverso grado, uno stile populista: per linguaggio e comunicazione. Esprimono, tuttavia, valori molto diversi. E seguono modelli opposti: dal punto di vista organizzativo e nel rapporto con la società e il territorio. La Lega è un partito "territoriale". Nordista per geografia e identità. Impiantato su una base di volontari e militanti diffusa e persistente. L'Idv è, invece, un "partito senza territorio", orientato su questioni "nazionali". Con un elettorato proiettato, semmai, nel Centro-Sud. Dal punto di vista organizzativo, è ancora largamente fluido e sradicato. D'altronde, ha conosciuto un successo rapido e recente. Fino a oggi, la sua identità si è confusa con quella del leader. I diversi modelli espressi dai due partiti riflettono uno slittamento del rapporto fra politica e territorio, già segnalato. La sinistra utopica sta diventando atopica. Non solo l'Idv. Anche il Pd vede il proprio terreno sfaldarsi. Erede dei partiti di massa, il Pci e le correnti democristiane di sinistra, fino a ieri non era riuscito a scavalcare i confini delle zone rosse, dove però era saldamente insediato. Oggi, non più. Anche le zone rosse stanno diventando rosa. Segnate, qui e là, da alcune macchie di verde. Il Pd è il partito più forte solo in Emilia Romagna e in Toscana. Nelle Marche e perfino in Umbria è superato dal Pdl. Città e province tradizionalmente di sinistra scricchiolano. A Firenze e Bologna il Pd non è riuscito a imporre il suo candidato al primo turno. Delle 50 province dove governava, fino a pochi giorni fa, fin qui ne ha riconquistate solo 14 e 15 le ha già perdute. Delle 27 città capoluogo che amministrava fino a pochi giorni, il centrosinistra, al primo turno, ne ha mantenute sette mentre sei le ha cedute al centrodestra. Il quale sta piantando radici diffuse e profonde. Non solo la Lega. Nonostante l'insuccesso personale di Berlusconi, anche il Pdl ha dimostrato un buon grado di resistenza elettorale. Soprattutto nel Nord, dove ha sopportato lo scontro con la Lega. Per la prima volta, infatti, i due alleati non si sono cannibalizzati reciprocamente. Ha, inoltre, tenuto anche nelle regioni del Centro mentre ha perduto largamente nel Sud. Soprattutto in Sicilia, sua roccaforte. Dove ha pagato lo scontro con la Lega Sud di Lombardo. Suo alleato, fino a ieri. E forse di nuovo domani. Perché il Pdl, come prima Forza Italia, è un partito network. Aggrega soggetti politici e gruppi di potere radicati. Ciò lo rende forte e al tempo stesso vulnerabile. Esposto alle tensioni tra gli alleati, ai conflitti tra le diverse componenti locali. Il problema vero del centrodestra è che questa molteplicità di radici ha un solo, unico ceppo a cui attaccarsi. Una sola antenna, un solo volto attraverso cui comunicare insieme. Berlusconi. Risorsa. Ma anche limite. Come in questa occasione. Il centrosinistra però, asserragliato nei suoi confini, oggi deve affrontare la minaccia che viene da Nord. La Lega (centro) Nord in questa elezione si è sviluppata soprattutto nelle regioni rosse. In Emilia Romagna e nelle Marche. Che hanno una struttura sociale ed economica molto simile a quella del Nordest e della provincia del Nord. Territorio di piccole imprese globalizzate, investito da flussi migratori estesi. La Lega Nord è riuscita a entrare nel territorio della sinistra usando il linguaggio della paura e del localismo. Un linguaggio che non ha confini, ma serve a crearli. Fra le province dove è cresciuta maggiormente, rispetto alle politiche, ci sono Reggio Emilia, Modena, Forlì, Prato, Parma, Pesaro-Urbino. Ciò solleva una questione che va oltre il voto europeo e amministrativo. Riguarda il Pd. Angosciato da una sorta di "sindrome della scomparsa", ha accolto il risultato delle europee con sollievo. Quasi come un successo. L'esito del primo turno delle amministrative, tuttavia, ne ha ribadito il disagio. Perché il Pd fatica a riconoscersi nella terra dei suoi padri. D'altra parte, per questo è sorto: per superare i confini della propria identità. Al di là delle regioni di cui si sente prigioniero. Ma ora è disorientato. Insidiato dall'Idv, in ambito nazionale, fra gli elettori di opinione che chiedono "opposizione" e parole chiare. Minacciato nelle proprie roccaforti dalla Lega. Che usa il territorio come arma e come bandiera. Anche il Pd, come molti dei suoi elettori, si sente un po' esule a casa

venerdì 3 luglio 2009

mercoledì 1 luglio 2009

Contributo all’assemblea dei candidati e sostenitori della lista Canzian del 1 luglio 2009. Sala dei savi


(bozza non corretta)

Dieci giorni sono passati dal turno di ballottaggio delle elezioni amministrative. Turno di ballottaggio che ha visto comune e provincia di Ascoli consegnati entrambi al centrodestra dagli elettori del nostro territorio che, probabilmente, sono in molti a dirlo, hanno votato più per bocciare scelte, contraddizioni ed incertezze di una parte, che per dare fiducia all’altra che, aldilà di coreografie, di vecchie ed abusate pratiche e suggestive immagini, non brillava certo per unità di intenti, proposte e manifesta capacità di concretizzarle.
Un esito che molti di noi avevano temuto e tentato di scongiurare con un serrato lavoro quotidiano a contatto con gli elettori.
Centinaia di incontri, di occasioni di confronto e discussione, creati nel breve periodo della campagna elettorale che purtroppo però non sono bastati a far passare, sino in fondo, il nostro messaggio, a farlo divenire maggioritario.
C’è davvero mancato poco se, sui quasi trentamila voti espressi dai cittadini della nostra città, alla fine, solo 427 voti hanno separato Canzian da Castelli.
Ci siamo fermati a 14.273 e, da questo dato, purtroppo insufficiente a consegnarci la guida della città, ma certo di buon auspicio per il futuro, vogliamo e dobbiamo ripartire.
L’esiguità di questa differenza ci mostra come l’indicazione dataci dagli elettori delle primarie di novembre fosse quella giusta.
Non di una candidatura interna ed incapace di parlare alla città si trattava come da molti, anche nel centrosinistra, indicato ma della candidatura giusta, capace di rompere gli schemi consueti del confronto destra-sinistra e di aprire una breccia consistente nel centrodestra cittadino. (Chiunque sia stato presente in uno qualsiasi dei seggi cittadini non può non aver notato quante schede recanti l’indicazione per partiti del centrodestra individuavano comunque Canzian quale candidato sindaco prescelto).
Molte cose sono successe dalla data delle primarie (ricordate: eravamo a fine novembre): l’uscita dalla maggioranza in comune di un consistente numero di consiglieri, l’approvazione della mozione di sfiducia al sindaco Celani, la scelta dell’udc di correre da sola, l’imprevista candidatura a sindaco di Gibellieri, che hanno, tutte insieme, alcune volontariamente altre incidentalmente, contribuito, non poco, a rendere più agevole la nostra corsa.
Il nostro partito (e il centrosinistra in generale) non è però riuscito, nel suo insieme, sino in fondo, a cogliere tutti gli aspetti e le potenzialità di questa favorevole situazione (o, in un’ipotesi più triste e “tafazziana” li ha percepiti tutti ed ha, di conseguenza, agito).
Dopo le primarie infatti, sin da dicembre, c’era la possibilità di tuffarci, tutti insieme, con largo anticipo, nella campagna elettorale per tentare di far conoscere, a quanti ancora non avevano avuto occasione di farlo, il nostro candidato, la nostra proposta per la città e per i cittadini.
Ci siamo chiusi in un serrato confronto volto a mettere in discussione il risultato delle primarie indicando addirittura quale determinante, ai fini dell’esito finale delle stesse, il presunto voto di cittadini di centrodestra che avrebbero in tal modo inteso favorire la scelta del candidato della sinistra più debole per avere la strada in discesa verso l’Arengo. Gli elenchi degli elettori delle primarie sono pubblici e chiunque poteva e può verificare quanto di vero ci sia in tale ipotesi: nulla.
Decine e decine gli episodi e i tentativi di delegittimazione, le prove richieste, le istanze pretestuosamente avanzate (o fatte avanzare da altre forze della coalizione) al solo scopo di rimettere in discussione, sino all’ultimo, il risultato emerso dalle urne delle primarie.
Ora è probabilmente inutile elencarli tutti: ciascuno di noi ricorda ogni passaggio. Il risultato finale è comunque stato quello di un centrosinistra giunto alle elezioni della città di Ascoli con tre persone candidate alla carica di sindaco offuscando, in tal modo, non poco, la prospettiva di un governo caratterizzato da segni diversi della città.
Discorso a parte va fatto per le scelte operate per la Provincia anche se, anche queste, alla fine, si riveleranno determinanti per le stesse sorti della città di Ascoli.

Il PD, in questo caso, ha tentato una prova di forza; ha, forte del suo 40% riportato alle ultime elezioni politiche, ritenuto opportuno e logico rivendicare il ruolo di presidente della provincia e provato a dimostrare la sua autosufficienza; la sua capacità di vincere anche al di fuori della tradizionale alleanza di centrosinistra.
Una scelta politica possibile, approvata dall'assemblea provinciale, non all'unanimità ma certo con larghissima maggioranza dei presenti, quando si è votato, e, di certo, legittima.
Una scelta politica che, come ha scritto qualcuno, ha sotto nomi e cognomi di chi l'ha proposta, portata avanti e fatta approvare dall’assemblea del partito.
Tanti in questi mesi avevano, in diversi modi e forme, avvertito che per la via della delegittimazione di Rossi e del lavoro della sua giunta, della quale eravamo stati componente essenziale e determinante, non si sarebbe giunti a nessun risultato utile; che era, quella della divisione da Rossi, una politica cieca e sorda ai richiami dell’elettorato del centrosinistra; si è più volte letta ed udita la metafora dell’auto lanciata a piena velocità contro il muro senza che nessuno di quanti erano a bordo avesse il coraggio di dire ciò che realmente stava accadendo o di tirare il freno.
Giravano, ed erano anche largamente conosciuti, dati di sondaggi che mostravano quanta parte dei tradizionali elettori del PD avrebbero comunque rinnovato la loro fiducia a Massimo Rossi, indipendentemente dal candidato scelto dal loro partito di riferimento; tanti erano gli appelli, gli articoli, i commenti sui quotidiani on-line che avvertivano i vertici del partito che avremmo perso provincia e comune continuando per quella via e, sopratutto, scegliendo di abbandonare la maggioranza provinciale a due mesi dalle elezioni esprimendo non un candidato qualsiasi ma colui che nella giunta Rossi aveva ricoperto il ruolo di vicepresidente e, come giusto e naturale, di quella giunta aveva condiviso ogni scelta e strategia.

Il nostro gruppo dirigente è rimasto, nonostante tutto, legittimamente, sulle sue posizioni, portando il Pd ed il centrosinistra ad una sconfitta talmente evidente e di tale portata che, certo, non potrà essere priva di conseguenze. Non sarebbe giusto, se ne fosse priva, per i cittadini, per i nostri elettori; per quanti ci hanno sostenuto; per quanti, magari pur non condividendo la scelta della divisione, hanno comunque visto in noi una forza seria e responsabile e della quale fidarsi.
L’essere, ed essere individuati quale forza seria e responsabile, impone anche delle responsabilità: è nel ruolo di un gruppo dirigente assumere delle decisioni e fare delle scelte, ma quando queste si appalesano come errate, le conseguenze vanno tratte, se non si vuol dare l’impressione di far parte di una casta comunque intoccabile ed insensibile a qualsiasi cataclisma.
E, paradossalmente, tanto più diffusa e condivisa è stata la scelta, tanto più le responsabilità vanno individuate e, di conseguenza, più ampio deve essere il rinnovamento del gruppo dirigente, arrivando a coinvolgere, a mio avviso, ed è un mio pensiero, anche se in misura minore, anche chi pur non condividendo talune scelte, non ha avuto sufficiente determinazione da far prevalere quelle ritenute giuste.

Il problema non è ovviamente dimissioni o meno del segretario provinciale. Certo anche lui ha le sue responsabilità, se non altro, per lo “zelo” che ha messo nell’eseguire le decisioni assunte dell’assemblea ma è tutto il gruppo dirigente che deve mettersi in discussione e quanti, in particolare, nessuno sa in quale sede ed in quale circostanza, all’indomani del primo turno, una volta accertato che i consensi ricevuti dal nostro candidato non erano quelli sperati, ha tentato, pur di non dover governare col condizionamento derivante da altre forze della sinistra, di vincere senza apparentamento regalando così definitivamente la Provincia a Celani.
Questo è probabilmente l’aspetto più grave della vicenda.
Responsabilità in merito a questo non sono ancora emerse. Resta agli atti il fatto che siamo riusciti nello stesso tempo a fare appelli per l’unità della sinistra agli elettori quando era allo stesso tempo evidente il fatto che, probabilmente per risentimenti personali (cosa che non si vede cosa abbia a che fare con le scelte di un partito) non c’era nessuna volontà di confrontarsi seriamente con chi, della sinistra, aveva raccolto, non il 5 o 10 ma il 20 % dei consensi e che, in virtù di questo, non poteva che essere interlocutore necessario.

Tornando ai dati emersi dalle urne, questi non sono, in questa occasione, di difficile interpretazione e il giudizio che se ne ricava è purtroppo di quelli inappellabili. Vediamone alcuni, pochi, giusto quelli necessari a rendere un po’ più comprensibile, se fosse necessario, quanto accaduto:

- nella città di Ascoli la candidatura di Canzian trascina con se la candidatura di Mandozzi in tutti i seggi, nessuno escluso. Quindi assolutamente nessun boicottaggio nei confronti del candidato provinciale da parte di nessuno. La differenza nei voti tra i due candidati deriva dalla diversa coalizione di sostegno e dal voto personale del candidato sindaco;
- la candidatura di Mandozzi, nonostante il risultato alla fine per certi versi accettabile, si è rivelata una candidatura comunque troppo “compromessa” con l’amministrazione Rossi per essere credibile tanto che neppure in roccaforti tradizionali del PD riesce a sfondare;
- il risultato del centrosinistra di Ascoli dipende in larga parte dal voto delle frazioni: Mozzano, Marino e Venagrande in particolare.
Nella città di Ascoli la prevalenza di Canzian è evidente, segno che la candidatura era quella giusta e che se lo stesso (e buona parte di noi) si fosse potuto dedicare un po’ meno a difendersi dalle controversie interne e un po’ di più alla campagna elettorale sarebbe probabilmente andata diversamente;
- guardando i dati delle sezioni di Ascoli risulta infine evidente come il candidato sindaco eletto debba questa affermazione alla copresenza in campagna elettorale del candidato presidente Celani. Una eventuale vittoria del centrosinistra in provincia avrebbe determinato una vittoria di Canzian nella città di Ascoli, non di misura ma ampia. La scelta di non ricandidare Rossi (che avrebbe con ogni probabilità vinto al primo turno togliendo di mezzo Celani dalla campagna elettorale) oltre ad aver avuto l’esito di consegnare la Provincia alla destra ha quindi, anche se involontariamente, direttamente determinato la sconfitta di Canzian in Comune.
Siamo qui, comunque. Come dicevo ripartiamo da un patrimonio ampio di consensi. Oltre 14.000 elettori che hanno dato credito ad una proposta diversa di guida della città.
Si dice spesso di quanto Ascoli sia una città moderata e chiusa a prospettive di rinnovamento. In questa circostanza, la metà dei cittadini che hanno espresso il proprio voto, l’ha espresso a favore di un’idea avanzata di governo della città: si è parlato di rinuncia a governare col sostegno e condizionamento delle lobbies; era del tutto evidente la volontà di governare con tutte le forze del centrosinistra, fino a rifondazione comunista, nessuna esclusa; con un programma, ad esempio, molto avanzato sul terreno del sociale e della difesa delle fasce più deboli di cittadini.
A questa prospettiva quasi la metà dei cittadini ascolani ha guardato con favore smentendo apertamente opinioni largamente diffuse e”storicamente” provate. Questo ci pone di fronte alla necessità di avviare oggi un ragionamento su quanto dovremo e potremo fare, nelle istituzioni e al di fuori di esse, per far si che tutti questi cittadini abbiano comunque voce, che i loro diritti siano comunque tutelati, che le loro legittime aspirazioni possano comunque conseguire risposte.
C’è tanta amarezza e tanta inquietudine in ciascuno di noi. Questo può, da un lato, se le istanze ed aspirazioni di cui dicevo risultassero frustrate, portare ad un ripiegamento su posizioni qualunquiste e nel disimpegno o condurci, e questo credo sia l’obiettivo da perseguire, alla possibilità di mettere in campo, da subito, una aggregazione di forze capace di iniziare a costruire quella città diversa che per qualche mese tutti noi abbiamo avuto la forza ed il coraggio di sognare.